La partenza, il lavoro, la nostalgia, l’amore. Una piattaforma online aperta della Farnesina raccoglie i racconti di chi ha lasciato il nostro Paese. Tutti possono contribuire. È tutto scritto: i viaggi, i ritorni, il distacco, le difficoltà, l’amore, la guerra, la famiglia, i successi e le speranze.
C’è Carola Zanchi, nata nel 1922 ad Arezzo, che ha raggiunto l’Argentina con il marito e il piccolo Giovanni dopo un viaggio drammatico che ha racchiuso in una memoria del 1988. C’è Antonio De Piero, classe 1875, rimasto orfano da piccolo. È operaio a soli 15 anni nei territori dell’Impero Austro-ungarico e seppur gracile sopravvive a duri lavori, si sposa, ha cinque figli e vola in Canada per lavorare sette anni nei giacimenti di ferro, oro e carbone. Tenta di tornare in patria nel 1919 ma la depressione che soffoca l’Europa brucia i risparmi di anni di fatiche. Luciano Giovanditti lascia la Puglia negli Anni 50 e va in Francia, dove il lavoro in fabbrica e la lontananza dalla madre lo fanno ammalare di depressione, curata solo dal ricongiungimento con il padre in Germania. Con sacrificio mette da parte qualcosa e torna a casa, restando per tutti “il francese”.
Sappiamo di queste e di molte altre vite perché sono state raccontate da chi le ha vissute. Per la loro potenza narrativa sembrano sceneggiature cinematografiche e invece sono le vite di centinaia di italiani che tra l’Ottocento e oggi hanno lasciato questo Paese per attraversare il mondo. Ieri come oggi, loro come ogni popolo.
Questi duecento narratori spianano la strada al progetto “Italiani all’estero, i diari raccontano” e non sono scrittori di professione, hanno semplicemente sentito il bisogno di affidare alla carta e alla parola la loro esperienza, per sublimare intimamente i fatti o semplicemente per lasciarli a qualcuno. Sono loro stessi o i loro discendenti ad averli dati in custodia con fiducia all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che li aveva catalogati tutti nella categoria “emigrazione”. Dopo un’accurata selezione di autori e pagine ‒ alcuni ne hanno scritte migliaia ‒ oggi sono diventati patrimonio collettivo mondiale sulla piattaforma www.idiariraccontano.org, realizzata grazie al contributo della Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e, come ci dicono gli archivisti, anche grazie alla sensibilità di Luigi Maria Vignali, direttore generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie. Ogni pagina originale, che sia un diario, un quaderno di memorie o una lettera, è stata digitalizzata e trascritta, titolata, collocata nel tempo e nello spazio e indicizzata con parole chiave.
La navigazione è ricca di storie sorprendenti: come quella di Luca Pellegrini, un ragazzo del 1822 che a 16 anni rimane orfano e sale come mozzo su un veliero che viaggia tra Trieste e Venezia. Impara tutto del Mediterraneo, scopre vite e culture lungo le coste di quelli che saranno Croazia e Montenegro, nella Turchia che era ancora Impero Ottomano. Si imbarca per Amsterdam, vive il naufragio, sopravvive e salpa alla volta del Sud America, poi diventerà capitano.
Iniziano invece nel 1996 e proseguono nel nuovo millennio gli scambi epistolari tra Lino Rizzo e Andrea Francini, giovani laureati in ingegneria al Politecnico di Torino che scelgono di andare a lavorare in Inghilterra e negli Stati Uniti. Una profonda amicizia coltivata a distanza.
“I diari raccontano” è una piattaforma aperta e implementabile: chiunque può contribuire inviando una nuova, unica e autentica storia e farla diventare parte di un più ampio racconto culturale. «Lo abbiamo pensato per il puro piacere, per studio o per scopo didattico, ma anche per stimolare prodotti artistici o culturali ‒ spiega Nicola Maranesi, coordinatore del progetto ‒. Dagli scritti raccolti emergono tratti comuni molto forti e trasversali tra le epoche storiche, ci sono storie decisamente difficili, altre costellate di successo.
Tutte però hanno a che fare con l’interesse storico delle singole traiettorie umane custodite negli scritti, autentici e spontanei».
Ne sarebbe molto orgoglioso Saverio Tutino, il giornalista giramondo che nel 1984 fondò l’Archivio dei Diari in questa fetta d’Italia al confine tra Toscana, Umbria e Romagna «per rispondere all’esigenza di memoria di un intero Paese e accogliere le testimonianze autobiografiche di un intero popolo». Tutto è iniziato da un piccolo avviso sui giornali: oggi l’archivio conserva più di 8mila testi e lettere, tra i quali c’è anche il lenzuolo matrimoniale al quale Clelia Marchi di Poggio Rusco (Mantova) affidò la propria toccante memoria contadina.
L’articolo è tratto dal “Corriere della Sera” del 7 agosto 2019
Numeri storici da non dimenticare.
Alla fine del 1974 apparve il fascicolo monografico (nn.11-12) del mensile «Il Ponte» dal titolo Emigrazione cento anni 26 milioni. L’incipit nell’introduzione del direttore Enzo Enriques Agnoletti anticipava le verità che i numerosi saggi del volume avrebbero dimostrato e che i politici al governo e i ceti dominanti avrebbero preferito tener nascosta: «dall’unità d’Italia non meno di ventisei milioni d’Italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro paese. È un fenomeno che per vastità, costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo». Non meno impressionanti i dati presentati nel saggio di Paolo Cinanni, presidente della Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie). Nel 1971 i nostri concittadini residenti fuori della patria erano oltre 5.200.000. Aggiungendo gli italiani con cittadinanza straniera acquistata dal dopoguerra, 1.200.000, risulta che a quella data fuori del nostro paese vivevano circa sei milioni e mezzo di connazionali. Milioni di vite in gioco, migliaia di casi angosciosi nella ricerca di lavoro e di casa. Dovremmo definirli, questi emigrati, adottando l’orribile invenzione idiomatica attuale, «economici»? Il pugliese Ferdinando Nicola Sacco e il piemontese Bartolomeo Vanzetti, l’uno operaio l’altro pescivendolo, onesti «economici» anarchici approdati negli Stati Uniti vi trovarono la morte sulla sedia elettrica. Oggi, invece, immigrati in Italia e in altri paesi europei, fuggiaschi o «economici» che siano, incontrano la morte in mare; qualcuno nel carrello di un aereo o nel cassone di un TIR.