Sta tornando una situazione in cui al conflitto armato si sostituisce, per ora, quello commerciale: adesso la parola chiave non è più collaborazione, ma competizione. Declina l’era in cui i Paesi sviluppati collaborarono per scongiurare le tensioni alla radice della seconda guerra mondiale; i nazionalisti, ormai al governo negli Usa, nel Regno Unito e in Italia, sono prima forza d’opposizione in Francia e Germania.
A mutare il quadro è stata la globalizzazione che, intensificando gli scambi internazionali, ha avuto effetti contrastanti fra Paesi sviluppati ed emergenti. Su questa s’è innestata la finanziarizzazione dell’economia, sfociata nella crisi del 2007, che contraddiceva le scelte decise nel ’44 alla conferenza di Bretton Woods grazie a J.M. Keynes, un gigante del pensiero. Memore delle esose riparazioni inflitte cent’anni fa alla Germania sconfitta e della crisi del 1929, egli convinse gli USA a scongiurare nuovi conflitti diffondendo lo sviluppo economico, la piena occupazione e la stabilità finanziaria. Allo spirito di collaborazione multilaterale di Bretton Woods si deve l’accordo di Londra del febbraio ’53 quando – a meno di otto anni dalla resa di Berlino – i Paesi vincitori condonarono alla Repubblica Federale Tedesca (RFT) metà dei debiti accesi dal Terzo Reich per aggredire l’Europa libera. Gli USA volevano certo sottrarre la RFT all’influenza sovietica, ma c’erano altri, più rudi, modi per farlo: non era quella la scelta ovvia. Con l’approccio cooperativo la “Guerra fredda” l’han vinta le democrazie occidentali che, pur operando per la sconfitta dell’URSS, han sempre escluso di ottenerla con le armi.
Quello spirito ha propiziato la rinascita post-bellica, poi agevolato il più ambizioso progetto politico della storia, l’attuale Unione Europea, e perseguito lo sviluppo condiviso con le organizzazioni multilaterali. Queste han sospeso – fatto senza precedenti nella storia – il vigore della legge di gravità politica, per la quale il più forte ha ragione. Se gli USA nel ’45 avessero perseguito l’America first, il nostro destino sarebbe stato assai peggiore; ora la vittoria di Trump, col tramonto del multilateralismo cooperativo nello “Stato guida”, è il punto di svolta. Quell’assetto declina forse per troppo successo: la Brexit e la crisi d’identità della UE son dovute proprio ai progressi, per tanti eccessivi, dell’integrazione europea. L’esplosione degli scambi internazionali, poi, ha immesso nell’economia moderna centinaia di milioni di persone prima escluse, migliorandone il tenore di vita. Sono emigrati nei Paesi emergenti molti lavori prima svolti in Occidente ove, invece, aumentano i poveri che lavorano e per centinaia di milioni di persone peggiora la vita. Esse soffrono la perdita di status sociale, sperimentando l’incertezza sul futuro, ben nota ai Paesi emergenti.
Visto dallo spazio, il mondo è oggi più equo, o meno iniquo, di ieri, ma gli elettori dei Paesi sviluppati si oppongono col voto. L’avanzata del nazionalismo esprime, magari inconsciamente, il rifiuto della nuova realtà, che ha dato il benessere a tanti “là” e l’ha tolto “qua”, vorrebbe ricacciare le masse che si affacciano al benessere nella miseria da cui sono uscite, nell’illusoria nostalgia di un passato che non tornerà. Torna, invece, un mondo nel quale al conflitto armato si sostituisce, per ora, quello commerciale, nel quale la parola chiave non è più collaborazione, ma competizione.
Donald Trump sfrutta la potenza militare per imporsi negoziando con i singoli Stati, più deboli. Così, per riequilibrare la bilancia commerciale USA, mission impossible, finge che le importazioni d’acciaio canadese o di auto europee mettano a rischio la sicurezza USA. È il ritorno alla legge di gravità, cui solo la UE si può opporre: sono perciò assurde le parole del sottosegretario leghista Michele Geraci, che dice al Sole 24 Ore, sui negoziati commerciali: «La politica (della UE, ndr) è comune, ma le negoziazioni, per noi, si devono fare one to one con ogni partner: USA, Cina e altri».
Le pratiche illecite della Cina van combattute, ma ciò non autorizza a bloccare il suo sviluppo per impedirle di crescere negli equilibri mondiali. I rischi dell’autocrazia cinese, gravissimi, non si affrontano impedendo – con la forza o con i suoi sostituti, come l’overreach legato al ruolo del dollaro USA nei pagamenti – a uno Stato sovrano le politiche di crescita che ritiene opportune. Con metodi simili l’Occidente, lungi dal vincere la “guerra fredda”, ci avrebbe precipitato in quella calda, senza vincitori, forse senza sopravvissuti.
Trump prima scatena i conflitti commerciali, poi vuole che la Federal Reserve abbassi il costo del denaro per attutirne le conseguenze: cinica scelta volta a propiziarsi la rielezione, manipolando la valuta. Per questo “alto fine”, dovremmo tutti correre verso l’inevitabile bolla, giunta la quale le banche centrali sarebbero quasi prive di spazi di manovra.
Quando il XX secolo si chiuse nel trionfo dell’Occidente, parve che una visione lungimirante degli interessi nazionali potesse ancora prevalere; il XXI sta dandoci un mondo diviso da ampi fossati, dove gli Stati si affrontano brandendo interessi nazionali dalla corta vista. La critica alla globalizzazione continua, ma sono poche e sparse, chissà perché, le voci che vorrebbero ricondurre la finanza al ruolo di serva dell’economia. La finanza padrona ha invece acuito i lati negativi della globalizzazione e, a differenza di questa, è assai dannosa.
L’articolo è tratto dal “Corriere della Sera” del 1 agosto 2019