Mentre prepara dodici grossi panini al tonno, Mauro si ferma un istante per concedersi alla spavalderia: «Dovrebbero deportarci tutti per favoreggiamento dell’immigrazione illegale».
Ma a Lampedusa chiunque indossi una divisa sa di dover chiudere un occhio. Perché di questi tempi perfino portarsi in casa e sfamare un ragazzo che parla arabo è da “carbonari della solidarietà”. Figurarsi dodici.
L’isola ribelle ha coniato negli anni un suo codice di sopravvivenza alle lunatiche imposizioni dall’alto. Il bene, qui, è anche questione d’innata astuzia. «Come si dice: non sappia la destra ciò che fa la sinistra», ricomincia Mauro che davanti alla chiesa di San Gerlando incontra, come ogni sera, i migranti tunisini che, sempre grazie a chi chiude un occhio, da un buco nella recinzione escono dal centro di prima accoglienza in collina per raggiungere l’abitato che affaccia sul porto. Vi rientreranno a tarda sera, dopo quattro chiacchiere con i nuovi amici lampedusani e una sessione di collegamento a internet messo a disposizione dai benefattori del wi-fi libero.
A Lampedusa hanno le ronde, ma non le chiamano così. Anche perché sono ronde solidali, armate di sandwich e motorini. C’è anche una rete informale (e in teoria illegale) per la assistenza dei migranti che sbarcano. Il reato, nel caso, sarebbe quello di “favoreggiamento”.
Ma se uno straniero deve far sapere ai suoi che sta bene, a Lampedusa c’è sempre una casa, un telefono, una connessione alla rete da mettere a disposizione dell’ultimo arrivato. «Siamo mamme anche noi, a me “uscirebbero i sensi”, diventerei pazza senza notizie di mio figlio», dice Giusi mentre acquista una ricarica al cellulare che senza troppe domande presta ai ragazzini sbarcati: «Salvini? Venisse a controllarmi il telefono».
Festival, manifestazioni, cortei, non sono che la parte visibile di quello che ogni giorno e ogni notte accade senza clamore. «Se porto un migrante a casa per fargli fare una doccia e per dargli da mangiare, non è che lo devo raccontare a tutti ‒ continua Mauro, mentre accende il vecchio scooter sverniciato dalla salsedine ‒. A me basta sapere che sono stati registrati dalle autorità dopo lo sbarco. E poi cosa facciamo di male?».
Ci sono regole, da queste parti, che restano immutabili. Norme che puoi leggere nelle rughe di Gerlando, il pescatore del porto vecchio, il quale non si rassegna a chi quei comandamenti vorrebbe cancellarli spazzando via una cultura millenaria. «Siamo arrivati al punto ‒ dice – che se li aiuti in mare indicando loro la rotta verso Lampedusa, rischi di finire con le manette». Ma a dodici miglia dall’isola «con quale coraggio gli posso dire di tornarsene indietro e rifarsi duecento chilometri magari con le onde di due metri e il carburante che scarseggia? Forse a Roma c’è qualcuno che dovrebbe capire che noi pescatori siamo. Pescatori, non assassini».
L’articolo è tratto da Avvenire del 5 novembre