“Contro i capelli lunghi”
di Pier Paolo Pasolini
[…]
I capelloni diventarono abbastanza numerosi — come i primi cristiani: ma continuavano a essere misteriosamente silenziosi; i loro capelli lunghi erano il loro solo e vero linguaggio, e poco importava aggiungervi altro. Il loro parlare coincideva col loro essere. L’ineffabilità era l’ars retorica della loro protesta.
Cosa dicevano, col linguaggio inarticolato consistente nel segno monolitico dei capelli, i capelloni nel ‘66-’67?
Dicevano questo: «La civiltà consumistica ci ha nauseati. Noi protestiamo in modo radicale. Creiamo un anticorpo a tale civiltà, attraverso il rifiuto. Tutto pareva andare per il meglio, eh? La nostra generazione doveva essere una generazione di integrati? Ed ecco invece come si mettono in realtà le cose. Noi opponiamo la follia a un destino di ‘executives’. Creiamo nuovi valori religiosi nell’entropia borghese, proprio nel momento in cui stava diventando perfettamente laica ed edonistica. Lo facciamo con un clamore e una violenza rivoluzionaria (violenza di non-violenti!) perché la nostra critica verso la nostra società è totale e intransigente».
Non credo che, se interrogati secondo il sistema tradizionale del linguaggio verbale, essi sarebbero stati in grado di esprimere in modo cosi articolato l’assunto dei loro capelli: fatto sta che era questo che essi in sostanza esprimevano. Quanto a me, benché sospettassi fin da allora che il loro «sistema di segni» fosse prodotto di una sottocultura di protesta che si opponeva a una sottocultura di potere, e che la loro rivoluzione non marxista fosse sospetta, continuai per un pezzo a essere dalla loro parte, assumendoli almeno nell’elemento anarchico della mia ideologia.
Il linguaggio di quei capelli, anche se ineffabilmente, esprimeva «cose» di sinistra. Magari della Nuova Sinistra, nata dentro l’universo borghese (in una dialettica creata forse artificialmente da quella Mente che regola, al di fuori della coscienza dei Poteri particolari e storici, il destino della Borghesia).
Venne il ’68. I capelloni furono assorbiti dal Movimento Studentesco; sventolarono con le bandiere rosse sulle barricate. Il loro linguaggio esprimeva sempre più «cose» di Sinistra. (Che Guevara era capellone ecc.).
Benché i capelli — riassorbiti nella furia verbale — non parlassero più autonomamente ai destinatari frastornati, io trovai tuttavia la forza di acuire le mie capacità decodificatrici, e, nel fracasso, cercai di prestare ascolto al discorso silenzioso, evidentemente non interrotto, di quei capelli sempre più lunghi.
Cosa dicevano, essi, ora? Dicevano: «Sì, è vero, diciamo cose di Sinistra; il nostro senso — benché puramente fiancheggiatore del senso dei messaggi verbali — è un senso di Sinistra… Ma… Ma…»
Il discorso dei capelli lunghi si fermava qui: lo dovevo integrare da solo. Con quel «ma» essi volevano evidentemente dire due cose: 1) «La nostra ineffabilità si rivela sempre più di tipo irrazionalistico e pragmatico: la preminenza che noi silenziosamente attribuiamo all’azione è di carattere sottoculturale, e quindi sostanzialmente di destra». 2) «Noi siamo stati adottati anche dai provocatori fascisti, che si mescolano ai rivoluzionari verbali (il verbalismo può portare però anche all’azione, soprattutto quando la mitizza): e costituiamo una maschera perfetta, non solo dal punto di vista fisico — il nostro disordinato fluire e ondeggiare tende a omologare tutte le facce — ma anche dal punto di vista culturale: infatti una sottocultura di Destra può benissimo essere confusa con una sottocultura di Sinistra».
Insomma capii che il linguaggio dei capelli lunghi non esprimeva più «cose» di Sinistra, ma esprimeva qualcosa di equivoco, Destra-Sinistra, che rendeva possibile la presenza dei provocatori.
Una diecina d’anni fa, pensavo, tra noi della generazione precedente, un provocatore era quasi inconcepibile (se non a patto che fosse un grandissimo attore): infatti la sua sottocultura si sarebbe distinta, anche fisicamente, dalla nostra cultura. L’avremmo conosciuto dagli occhi, dal naso, dai capelli! L’avremmo subito smascherato, e gli avremmo dato subito la lezione che meritava. Ora questo non è più possibile. Nessuno mai al mondo potrebbe distinguere dalla presenza fisica un rivoluzionario da un provocatore. Destra e Sinistra si sono fisicamente fuse.
Siamo arrivati al 1972.
Ero, questo settembre, nella cittadina di Isfahan, nel cuore della Persia. Paese sottosviluppato, come orrendamente si dice, ma, come altrettanto orrendamente si dice, in pieno decollo.
Sull’Isfahan di una diecina di anni fa — una delle più belle città del mondo, se non chissà, la più bella — è nata una Isfahan nuova, moderna e bruttissima. Ma per le sue strade, al lavoro, o a passeggio, verso sera, si vedono i ragazzi che si vedevano in Italia una decina di anni fa: figli dignitosi e umili, con le loro belle nuche, le loro belle facce limpide sotto i fieri ciuffi innocenti. Ed ecco che una sera, camminando per la strada principale, vidi, tra tutti quei ragazzi antichi, bellissimi e pieni dell’antica dignità umana, due esseri mostruosi: non erano proprio dei capelloni, ma i loro capelli erano tagliati all’europea, lunghi di dietro, corti sulla fronte, resi stopposi dal tiraggio, appiccicati artificialmente intorno al viso con due laidi ciuffetti sopra le orecchie.
Che cosa dicevano questi loro capelli? Dicevano: «Noi non apparteniamo al numero di questi morti di fame, di questi poveracci sottosviluppati, rimasti indietro alle età barbariche! Noi siamo impiegati di banca, studenti, figli di gente arricchita che lavora nelle società petrolifere; conosciamo l’Europa, abbiamo letto. Noi siamo dei borghesi: ed ecco qui i nostri capelli lunghi che testimoniano la nostra modernità Internazionale di privilegiati!».
Quei capelli lunghi alludevano dunque a «cose» di Destra.
Il ciclo si è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e l’ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto pazientemente una moda, che, se non si può proprio dire fascista nel senso classico della parola, è però di una «estrema destra» reale.
Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendosi laidi come le vecchie puttane di un’ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre. Sono saltate fuori le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali, da anarchici fasulli, da impiegati buffoni, da Azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da mercenari, da imbroglioni, da benpensanti teppisti. Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri — che sono la storia in evoluzione e la cultura precedente — alzando contro di essi una barriera insormontabile ha finito con l’isolarli, impedendo loro, coi loro padri, un rapporto dialettico. Ora, solo attraverso tale rapporto dialettico — sia pur drammatico ed estremizzato — essi avrebbero potuto avere reale coscienza storica di sé, e andare avanti, «superare» i padri. Invece l’isolamento in cui si sono chiusi — come in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioventù — li ha tenuti fermi alla loro insopprimibile realtà storica; e ciò ha implicato — fatalmente — un regresso. Essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico convenzionalità e miserie, che parevano superate per sempre.
Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, «cose» di Destra: quelle della televisione o delle «réclames» dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: ciò, oggi, sarebbe scandaloso per il potere.
Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione) : ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani, assomigliano sempre più alla faccia di Merlino. La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà. E’ giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda.
Corriere della Sera, 7 gennaio 1973
Riproponiamo questo “pezzo” di Pier Paolo Pasolini (quello con cui iniziò la sua collaborazione al Corriere) – letto e discusso martedì scorso nella serata promossa dalla Fondazione Corriere della Sera a Milano dal titolo “In modo radicale: Pasolini e il Sessantotto” – perché lo consideriamo prezioso per varie ragioni.
Intanto perché ci rivela, in modo magistrale, da “visionario realista” qual’era Pasolini, facendo “parlare i capelli”, come si possa transitare direttamente dalla trasgressione al conformismo, mantenendo le stesse forme, quasi senza accorgersene (“a propria insaputa”).
In secondo luogo perché quel testo, come d’altra parte la celebre poesia su Valle Giulia, gli studenti e i poliziotti (Titolo dell’autore Il Pci ai giovani, titolo attribuito Vi odio, cari studenti) vale come un’utilissima fonte storica. Ci dice, più di ogni manuale, come avvenne la transizione tra il Sessantotto e il suo “prima” e il Settantasette, e il suo “dopo”. Il ’73 sta quasi simmetricamente a metà tra quelle due “rivoluzioni” – la “bella rivoluzione” degli studenti e la “rivoluzione maledetta” dei giovani nella loro solitudine generazionale – , è il luogo geometrico della torsione che che chiude il lungo ciclo post-bellico durato fino al decennio d’oro del Sessanta e apre il lungo ciclo decostruttivo inaugurato dagli anni Ottanta…
Personalmente le ricordo bene quelle svolte. Ricordo il primo capellone, quando ancora studiavo al liceo, nel ’66, a Cuneo, città bigotta quant’ altra mai, chiusa nel proprio sentore di sacrestia da Vandea cisalpina: passava ogni mattina, su una scassata vecchia bicicletta, ostentando la sua lunga chioma al vento. Attraversava la città da un capo all’altro, in tutta la sua lunghezza, e sembrava il taglio di un rasoio su una tela immacolata. O lo stridere dell’unghia sulla lavagna. Le persone – giovani, vecchi, di mezz’età, tutti e tutte -inorridivano alla vista, appunto per quell’ “ineffabilità” che andava in scena rompendo l’ordine costituito senza bisogno di parole. Due, tre anni dopo chi non portava i capelli così era un diverso. E dieci anni più tardi, nonostante i capelli lunghi – anzi, forse grazie a quelle chiome tutte uguali – la speranza di rottura andava in fumo, mentre la domanda di massa di un mondo altro si faceva consumo di massa.
Ne pagherà il prezzo quella generazione che nel ’68, al tempo della nostra “bella rivoluzione” aveva sei anni, che vivrà il proprio romanzo di formazione nella bolla del nostro immaginario infiammato, e quando noi già, con le nostre chiome ancora lunghe ma già ben curate abbandonammo la scena per cercarsi una vita, si trovò sola, in un mondo che si rovesciava un’altra volta. La racconta, quella condizione, con giusta rabbia, in un libro che ho sempre considerato in assoluto “il più bello su quegli anni” – Piove all’insù – Luca Rastello:
«Noi – scrive in una delle ultime pagine del libro, di una disperata bellezza -, inadatti alla rivoluzione perché il luogo della rivoluzione è l’infinito, il futuro, sogno da figli dei fiori in tempo di benessere, svanito, noi passeremo dal potere infinito della nostra adolescenza carnale all’infinita frustrazione che muove al consumo. Di sé o di merci. E di vite come merci». E poco più avanti, parlando dei suoi compagni più sfortunati, di uno in particolare, di Albertino, morto – morto male, ancora adolescente, travolto dalla droga, e dalla solitudine -: « Albertino cantava “serietà”, ma la sua non è la serietà delle armi, lui vede cose che nessuno vede, poi non saprà di averle viste così chiare, si dimentica di sé stesso e fra poco si perderà, perché ha visto un grande supermercato con la fila dei carrelli e chilometri quadri di parcheggio: se hai comprato abbastanza non pagherai la sosta. Ha visto il fondo pensione, la rottamazione, l’acqua naturale, i messaggini, l’agenzia interinale e l’incentivo all’esodo, le vacanze fai da te, i siti porno, la seduzione dell’Amaretto. Il lavoro si estingue, abbiamo vinto. Quindi i più intelligenti di noi si estinguono. Il mondo ci somiglia, siamo noi la futura sostanza del comando, quelli che consumeranno di più perché più infelici, quelli che schiacceranno la testa agli altri per sopravvivere. Ciccio, Albertino e gli altri stanno per morire, e vedono il futuro di chi resta come uno specchio andato in pezzi. Eviteranno il bivio che ci aspetta tra poche settimane: o soli o arruolati»