Parlare con il popolo, per non cadere nel populismo

Volerelaluna.it

17/11/2023 di:

Un primo chiarimento: parlare con il popolo è molto diverso da parlare al popolo; anzi, è proprio l’opposto. È uno scambio bidirezionale, che alterna dire e ascoltare. Invece, parlare al popolo, in un’unica direzione, è la modalità tipica dei populisti di ogni genere, che non hanno bisogno di sentire, perché ritengono di sapere già cosa conviene dire. Parlano al popolo i predicatori di tutte le religioni, le sette, le congreghe. Lo fanno i dittatori, gli istrioni, i venditori di aria fritta. Lo fanno, purtroppo, molti politici, intellettuali e formatori di opinioni.

Popolo è qui sinonimo dell’intera cittadinanza, senza alcuna distinzione di collocazione sociale ed economica: l’insieme di tutti gli individui che condividono diritti e doveri in una determinata comunità statale. Parlare col popolo è doppiamente importante per chi è impegnato nell’attività politica: vuol dire saper ascoltare con attenzione, ma senza falsa compiacenza, ritenendo che ogni persona sia l’unica depositaria e testimone delle proprie aspirazioni e dei propri bisogni, giusti o sbagliati che siano. Vuol dire cercare di capire perché alcune (o molte) persone, pur partendo da giuste constatazioni, arrivano a sostenere le soluzioni errate. Vuol dire proporre ragionamenti chiari, senza atteggiamenti di superiorità o, peggio ancora, moralistici.

Nonostante l’immersione continua in una moltitudine di messaggi visivi e sonori che ci piovono addosso quotidianamente, noi scambiamo informazioni, impressioni e idee soprattutto con chi ci è simile e condivide la medesima impostazione di pensiero. Con tutti gli altri non andiamo oltre a qualche convenevole o a scambi di immediata utilità. Dunque, l’impegno a parlare con chi non ci assomiglia ci riguarda come singoli, ma ancora di più come soggetti politici.

I militanti nelle organizzazioni di sinistra e le persone più attive sul fronte sociale sono, in gran parte, dei garantiti: dipendenti pubblici o ex dipendenti, con una forte presenza di insegnanti, insieme a una sempre più ridotta rappresentanza del sindacalismo operaio. Sono persone con un livello culturale medio-alto e con una buona rete di relazioni personali. Il loro punto di vista e la loro esperienza, per quanto essi siano impegnati a favore della giustizia e dell’eguaglianza, non possono che essere parziali. Qui si nasconde un rischio di populismo “al contrario”, che individua i cattivi tra gli altri, i diversi da noi: quelli che si presume siano il bacino elettorale delle destre e che magari lo diventano davvero, proprio per la mancanza di un discorso politico in termini per loro comprensibili e accettabili. I non garantiti, sia quelli con redditi consistenti, sia coloro che sono costretti a vivere nell’indigenza e nel disagio quotidiano, diventano un confuso insieme di soggetti esposti alle lusinghe e alle false attenzioni dei demagoghi di turno.

In un recente articolo su La Repubblica, Roberto Esposito sostiene che «la ricetta del populismo che frena l’evoluzione del discorso pubblico [consiste nel] costruire un nemico su cui riversare la responsabilità di una situazione giudicata negativa». Scrive Esposito: «I politici, anziché elaborare progetti positivi di società, preferiscono contrastare quelli altrui […] perché in una società della comunicazione, o dello spettacolo, quale è la nostra, è più facile aggregare consenso “contro” che “a favore” di qualcuno […] è più redditizio criticare una riforma già fatta che proporne una nuova, viste le difficoltà politiche, economiche, tecniche che ogni progetto realistico comporta […]. Ciò ha un prezzo molto alto, che in ultima analisi è quello di sostituire a una democrazia del progetto una democrazia del rifiuto […]. Il populismo nasce dall’incapacità di proporre soluzioni efficaci agli scompensi generati da una globalizzazione disuguale e squilibrata. La digitalizzazione ha prodotto un ulteriore strappo nell’intermediazione politica».

Quelle qui riportate sono considerazioni che trovano chiara corrispondenza nella tattica politica delle destre, ma che, con i dovuti distinguo, si applicano anche a una sinistra che ha perso la capacità di guidare il popolo verso un futuro desiderabile e da costruire in modo condiviso. Anche a sinistra ci si dedica soprattutto a criticare ciò che fanno o dicono gli avversari al governo, spinti a ciò dall’urgenza di reagire al livello infimo delle loro azioni, oltreché da una situazione generale sempre più caratterizzata da tendenze ed eventi drammatici. L’aspetto più sconcertante di questo deficit propositivo consiste nel fatto che la sinistra dispone di strumenti raffinati e potenti per l’analisi della situazione economica e sociale, di un’esperienza storica illuminante, oltre che di un approccio materialista e scientifico: tutti attrezzi estremamente favorevoli per capire non solo ciò che va cambiato, ma anche cosa può davvero funzionare per diffondere eguaglianza e giustizia. Si può tentare, attraverso alcuni esempi, di tracciare una parziale mappa delle carenze propositive della sinistra, che possono degenerare in elementi di populismo “per contrasto”, insieme al distacco da ampi settori di cittadinanza che non trovano adeguata attenzione verso i loro bisogni o verso le cause di disagio profondo.

La destra se la prende con i migranti: allora noi siamo indistintamente favorevoli alle immigrazioni. Va subito sgomberato il campo da ogni possibile equivoco sull’assoluto dovere di soccorso e di un’accoglienza dignitosa. Va anche riaffermata con chiarezza la responsabilità del capitalismo occidentale nel continuare a produrre condizioni di miseria e violenza in gran parte dei Paesi africani e mediorientali, a cui conseguono dovere e necessità di costruire alternative adeguate. Però occorre fare attenzione a negare che quello dei movimenti migratori sia un problema complesso. Una parte dei disagi che derivano dalla pessima gestione dei flussi si riversa sulle zone periferiche o marginali e su coloro che le abitano, certo non sui benestanti! Il fatto di favorire soprattutto l’arrivo di maschi giovani e robusti, che servono nelle industrie e sui campi per farli lavorare sottopagati, da un lato accentua la probabilità di comportamenti dannosi da parte di coloro che vivono estraniati nel contesto sociale, dall’altro sottrae ai Paesi d’origine importanti potenzialità per lo sviluppo locale. Le presenze di immigrati non riguardano solo le popolazioni africane, ma anche europei, come romeni e albanesi, o i cinesi, che si sono organizzati abilmente (e con scarsi controlli sulla loro legalità) per invadere interi settori di attività, a danno dei lavoratori locali. In sostanza, pur rifiutando nettamente le posizioni delle destre razziste, spietate e sfruttatrici, il fenomeno va gestito con responsabilità e competenza, conciliando l’interesse di chi arriva con quello di chi già vive qui, per evitare conseguenze pericolose sull’orientamento di una consistente parte della cittadinanza. Lo slittamento a destra in gran parte dei Paesi europei lo dimostra con evidenza.

La destra favorisce gli autonomi e le piccole imprese: allora noi li contrastiamo. Le affermazioni imprecise e tendenziose sui guadagni da lavoro autonomo e sulla micro o piccola imprenditoria sono molto diffuse, da parte dei sindacati e tra le formazioni di sinistra. Si genera confusione sull’ammontare dei guadagni netti, effettivamente spendibili, decisamente minori di quanto può superficialmente apparire. Si dimentica il fattore rischio e la discontinuità del lavoro, per i quali, a fronte dei casi di successo, sono numerosi i fallimenti che fanno sfumare ogni risparmio. Si dimentica il ruolo di molte banche, pronte a concedere prestiti a chi fornisce garanzie consistenti, ma anche pronte a mandare in rovina chi a un tratto viene considerato inaffidabile. E si dimentica, soprattutto, la funzione importante che hanno i negozi, le botteghe artigiane e la piccola imprenditoria locale per mantenere vivibili i quartieri urbani, i paesi in pianura, i villaggi di montagna. Anche a questo proposito, occorre evitare gli equivoci: tasse e imposte vanno pagate, ma gli strumenti per il controllo ci sono e basta applicarli con giudizio. Le ampie aree di “nero”, che senza dubbio esistono, non sono difficili da individuare e da scoraggiare.

Accanto a questi esempi della democrazia del rifiuto, come la chiama Esposito, ci sono altre aree tematiche sulle quali la sinistra è reticente a pronunciarsi con chiarezza, senza rendersi ben conto del senso di sfiducia e del disagio che ne deriva, a danno, anche in questo caso, soprattutto di chi è isolato e più debole: proprio coloro che dovremmo sostenere con maggiore impegno.

Da parte della Sinistra, uno degli elementi costitutivi della visione dello Stato è il suo ruolo prevalente nel determinare le regole e nel gestire gli strumenti che governano l’economia e la società, compresa la proprietà e l’iniziativa privata. È ovvio che la condizione irrinunciabile per sostenere questa impostazione è il funzionamento ottimale di tutto l’apparato pubblico, senza alcuna concessione al lassismo e all’approssimazione. Al contrario, la difesa del settore pubblico (buono) in confronto al privato (cattivo) è frequentemente una posizione acritica, con sindacati troppo protettivi anche nei confronti di dipendenti pubblici fannulloni o inefficienti; senza ostacoli sufficienti contro la lottizzazione partitica nelle aziende di Stato e nelle istituzioni; con la burocratizzazione e una legislazione strabordante e confusa. Dunque, molti cittadini e cittadine hanno perso fiducia nello Stato, visto come un padrone inefficiente e minaccioso, anziché come un insieme di istituzioni e apparati al servizio della popolazione. E, ça va sans dire, chi patisce di più l’inefficienza sono i poveri e i non garantiti, che non dispongono di strumenti per cavarsela attraverso conoscenze e scorciatoie.

Ad ampliare ulteriormente il distacco e la sfiducia verso lo Stato pesa, con sempre maggiore evidenza, l’accentuato corporativismo di categorie determinanti per l’interesse pubblico. La magistratura, le forze dell’ordine, i politici di mestiere, pur comprendendo persone degnissime e di sicura dedizione al proprio dovere, come categorie d’insieme appaiono soprattutto interessate a garantire i propri privilegi e una sostanziale intoccabilità. Anche la professione medica, ampiamente meritoria per la parte impegnata a difendere la sanità pubblica, mette in mostra diffuse tendenze a favore del settore privato e la volontà di governare a proprio vantaggio il turnover, condizionando tanto i criteri di accesso per i giovani, quanto quelli di pensionamento per gli anziani. La Sinistra, che giustamente si scaglia contro le lobby imprenditoriali tutelate dalle destre, dovrebbe allargare non poco la sua attenzione verso chi provoca un danno ancora più generalizzato.

Non va trascurato anche l’isolamento di tutti coloro che non hanno attitudine a utilizzare i nuovi strumenti digitali. La tanto magnificata digitalizzazione viene adottata sempre più spesso come una scusa per ostacolare il contatto diretto con il personale delle istituzioni e di apparati vari. Ci si imbatte continuamente in rimandi, accessi via web che non funzionano, procedure macchinose. Chi non possiede uno smartphone recente e non è abbastanza abile a usare il computer (come molte persone avanti con gli anni), non riesce a risolvere problemi anche banali, per i quali basterebbe una telefonata o un rapido colloquio faccia a faccia. La frustrazione che ne può derivare è pesante e incide sullo stato d’animo individuale, sedimentando nel tempo.

Nel suo libro Le piazze vuote (ed. Laterza), Filippo Barbera sostiene che «una dolorosa ferita del nostro tempo è la perdita degli spazi dell’interazione collettiva. Perché con loro è franata la capacità di pensare in avanti, immiserendo i progetti politici». Per l’autore serve un punto di incontro che «non può e non deve rinunciare alla sua fisicità. Uno spazio che non può essere delegato ai terreni informi del digitale». Anche le piazze ripopolate potrebbero essere una buona occasione per parlare col popolo: «Agire per dare voce ai marginali senza cadere nella trappola della partecipazione cosmetica o strumentale. […] Solo in questo modo i bisogni individuali diventano soluzioni universalistiche, generative di nuove forme dell’agire in comune».