Le elezioni europee senza l’Europa

image_pdfimage_print

Sarebbe bene ricordarsi che le prossime elezioni saranno europee. E sarebbe decisamente necessario occuparsene per ciò che sono e non per altro. Elezioni europee, dentro un tempo in cui l’Europa sembra avere, per l’ennesima volta, deluso le attese dei cittadini democratici che la abitano. Proviamo, brevemente, a dipingere il volto attuale dell’Europa attraverso tre prospettive paradigmatiche (che enunciamo in ordine sparso).

La prima prospettiva è quella del ritorno di politiche repressive di chiusura e esclusione, con la scusa propagandistica della cosiddetta emergenza migratoria. Negli ultimi mesi, L’Europa ha meritoriamente accolto cinque milioni di ucraini. Solo in Italia, duecentomila. Senza costruire nuovi lager. Giustamente. Fuggivano dalla guerra. Che però, sarebbe bene ricordare, nel mondo di oggi è purtroppo una guerra, tra le tante. In Africa ci sono attualmente undici conflitti in atto, oltre alla violenza endemica dovuta alla drammatica storica povertà e al neo-imperialismo occidentale. Ma alcune migliaia di profughi disperati diventano un’emergenza insostenibile e intollerabile. Segnando una linea di confine simbolica e materiale per cui coloro che subiscono le politiche repressive non sono i migranti in quanto tali, ma i migranti in quanto poveri (come descritto in https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/09/22/attenzione-lobiettivo-non-sono-i-migranti-sono-i-poveri/). Tutti i paesi europei stanno partecipando a questa indecente commedia, recitata mentre si accumulano morti in mare, violenze e stupri. In barba a ogni aspettativa di una linea comune, le politiche migratorie europee sono diventate l’ennesima occasione in cui ogni singolo paese privilegia i propri interessi e gioca sulla pelle di disperati la propria partita elettorale e politica. Ogni governo magnifica la propria capacità di respingere, chiudere, selezionare, in un crescendo di cinico e propagandistico “patriottismo”.

La seconda prospettiva è quella della guerra ucraina. La guerra rappresentava plasticamente il fallimento delle politiche di contrapposizione tra blocchi, riprese dopo la breve parentesi apertasi con l’avvento di Gorbaciov. Ma l’Europa, invece di affermare la propria funzione di relazione con il resto del mondo, ha scelto di amplificare la propria subordinazione politica rispetto all’alleanza atlantica, rinunciando di fatto a ogni azione significativa nel mondo. Diventata, con la guerra in Ucraina, il braccio orientale della Nato, asservito ciecamente agli interessi Usa, non riesce più a contare nulla, né verso l’est, né verso il sud del mondo. L’Unione europea è nata – a quanto affermano i suoi stessi membri – dall’aver vinto una tragica guerra provocata da nazionalismo e razzismo. Ha oltre 448 milioni di abitanti, il 6% della popolazione mondiale, produce il 22% del PIL del mondo, pari a più di sedicimila miliardi di euro. Eppure, di fronte al problema storico di costruire un nuovo ordine mondiale che superi le contrapposizioni di sistema e affermi una nuova dignità di tutte le regioni della terra, l’Europa balbetta, sparisce, rifluisce nel suo passato di nazionalismi più o meno contrapposti, chiusi nell’orizzonte ormai asfittico del vecchio continente.

La terza prospettiva è quella dell’economia politica. Dopo anni in cui il cinismo del neoliberismo ha sfruttato l’Europa per imporre le proprie ricette irresponsabili e impoverire in maniera ostinata e perversa alcuni Paesi, giustificando tutto ciò con il nome di austerity, pareva esserci stato un momento in cui si è assistito a una parziale resipiscenza europea. È stato solo un momento, appunto. Durato giusto il tempo della terribile ma ormai dimenticata stagione della pandemia, nel quale era sembrato che di fronte a un “male comune” che attaccava senza tenere conto delle frontiere o delle etnie e persino, in qualche misura, della potenza e della ricchezza, le classi dirigenti avessero compreso la debolezza della competizione e la forza della cooperazione. Appena il pericolo più appariscente e urgente si è attenuato, tutto è tornato come prima. Oggi, per limitarci soltanto a qualche esempio, si torna a parlare di vincoli e di patto di stabilità. Le uniche concessioni di cui si discute non riguardano temi sociali come gli investimenti sulla sanità o sull’istruzione, ma i finanziamenti alle spese militari. I fondi del PNRR sono diventati perlopiù l’ennesima occasione per subordinare le politiche nazionali a obiettivi sociali imposti dall’alto con l’intento di riaffermare un ordine del mondo concorrenziale e iper-individualista. La BCE, incurante della lezione recente, ritorna a proporre una strategia folle sui tassi d’interesse, approfittando dell’inflazione galoppante per riaffermare l’austerity. Lagarde – con un’ipocrisia inversamente proporzionale alla scarsa fantasia – la definisce adesso “prudenza fiscale”, che si otterrebbe «riducendo i sostegni contro il caro energia e gradualmente abbattendo i livelli elevati del debito pubblico». L’effetto di queste scelte non sarà inaspettato: sclerotizzare le diseguaglianze a tutto vantaggio dei pochi ricchi e contro gli interessi dei tanti sempre più impoveriti.

Deus dementat quos perdere vult”, si potrebbe dire delle classi dirigenti europee. Un continente e ventisette stati, afflitti dalla stagnazione economica, dalla disoccupazione di massa, dalla crescita della povertà, dal deperimento dei propri sistemi di welfare, dalla denatalità, dalla mancanza di forza democratica e civile messi in evidenza dalla pandemia, sembrano non avere altre ricette e altre idee che quelle che hanno dominato negli ultimi quaranta anni e che hanno portato il continente e i paesi che lo compongono alla loro attuale, triste mancanza di futuro. Non dovrebbe essere questo l’unico e decisivo oggetto di discussione della prossima campagna elettorale? O, se vogliamo esser più precisi, non dovrebbe essere proprio questo ciò che distingue l’approccio di una sinistra credibile dalla destra? È ovvio infatti che le destre europee possano ignorare il destino dell’Europa. In fondo le politiche europee di austerità sono state un ottimo pretesto per l’affermazione dei nazionalismi e per l’imposizione di un ordine economico diseguale. Ma dovrebbe essere altrettanto ovvio chiedere alle sinistre di porre al centro delle proprie discussioni la domanda fondamentale: può l’Europa ancora essere uno strumento di amplificazione della democrazia e di costruzione di una società più equa o, dopo tutti questi decenni di storia contraffatta, dobbiamo rinunciare a quella dimensione? Può insomma la sinistra ignorare la necessità di misurarsi sulla trasformazione dell’Europa?

Di fronte a questa domanda fondamentale, anche il dibattito italiano sembra invece dominato dall’urgenza tutta autoreferenziale di trasformare le prossime elezioni europee in regolamenti di conti tra classi dirigenti, magari in concorrenza tra loro all’interno dello stesso partito, schiacciando ogni altro dibattito. Perché è bene affermarlo con nettezza: nessuna delle tre prospettive che abbiamo sommariamente descritto sopra può essere affrontata senza rispondere alla questione decisiva sul futuro dell’Europa. Ogni legittima indignazione sulle politiche migratorie sarà anche impotente, se non rivendica una trasformazione radicale delle istituzioni europee. Non ci può essere una posizione chiara sulla guerra all’interno di un giudizio imprecisato sull’Europa e sulla sua funzione internazionale. Ogni avversione all’ordine politico economico del neoliberismo è di fatto cieca, se non riconosce la contraddizione stridente tra l’utopia dell’Europa di Ventotene e la trappola dell’Europa di Von der Leyen e Lagarde.

Se la sinistra cade di nuovo nel tranello di fare delle elezioni europee nient’altro che elezioni a significato nazionale sarà un’ennesima occasione sprecata. E il dubbio che non ve ne saranno molte altre è un dubbio realistico. Porre la questione fondamentale sull’Europa è l’unica possibilità per la sinistra di tornare ad essere tale.

Gli autori

Sergio Labate

Sergio Labate è professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Macerata. Tra i sui temi di ricerca ci sono il lessico della speranza e dell’utopia nell’età secolarizzata, la filosofia del lavoro, le passioni come fonti dei legami sociali, la difesa della democrazia costituzionale nell’epoca del suo disincanto generalizzato. È stato presidente di Libertà e Giustizia. Tra le sue pubblicazioni: “La regola della speranza. Dialettiche dello sperare” (Cittadella 2012), “Passioni e politica” (scritto insieme a Paul Ginsborg, Einaudi 2016), “La virtù democratica. Un rimedio al populismo” (Salerno editrice 2019).

Giulia Rodano

Giulia Rodano è stata attivista, dirigente di partito, rappresentante eletta dai cittadini, assessora. Sono tanti i ruoli che ha ricoperto, sempre a sinistra, nel corso della sua lunga vita politica. Impegnata fin dal movimento studentesco del '68, ha militato nei movimenti pacifisti, nelle lotte per i diritti delle donne, nelle battaglie per i beni comuni. Ha militato nel PCI, nel PDS/DS, e ne è stata dirigente. Non ha aderito al PD. Oggi si ritiene una libera cittadina della sinistra.

Guarda gli altri post di: and