Quando si parla di antifascismo, come in questi giorni, si sente sovente richiedere agli esponenti di sinistra genericamente intesi, da parte di postfascisti e liberali, una professione uguale e contraria di anticomunismo. E questo in nome di una malintesa pacificazione nazionale che sconta, già dal dopoguerra, una mancanza di assunzione delle responsabilità da parte di chi ha gettato l’Italia nel periodo più buio della sua storia unitaria, culminato con la catastrofe mondiale. Perché sia avvenuta tale pacificazione monca lo si spiega con fattori storici e contingenti. Tra questi soprattutto la guerra fredda, che ha creato in Europa occidentale ostilità nei confronti dei partiti comunisti tanto da farli mettere al bando nella Germania occidentale. Ma in Italia ciò non era possibile, dato l’importante apporto dato dai comunisti alla liberazione e alla scrittura della carta costituzionale. Perciò, tale ostilità si concretizzò con una strisciante criminalizzazione postuma del movimento partigiano da una parte e con la conventio ad excludendum del Partito comunista italiano dall’altra.
La prima cosa che non capiscono (se si presume la buona fede) coloro che chiedono l’abiura del comunismo è che, mentre il fascismo ha causato danni enormi all’Italia, il comunismo italiano non condivide questo triste primato ma ha partecipato in prima linea alla ricostruzione postbellica. Occorre poi ricordare che la stessa Unione Sovietica, con l’esempio che un’altra società era possibile, ha permesso l’evolversi degli stati del welfare nell’Europa occidentale. Altrimenti si sarebbe proseguito con quell’utopia del mercato autoregolato che, secondo l’antropologo Karl Polany, ha portato all’insorgere dei fascismi. Oggi, molti conservatori riconoscono il ruolo indiretto dei sovietici nel favorire il patto tra capitale e lavoro che ha dato forma a quel periodo postbellico denominato i Trenta gloriosi, frutto della dialettica tra comunismo e liberaldemocrazie.
Ma vorrei spostare la riflessione su un altro piano: quello degli ideali. La storia ci ha dimostrato che l’applicazione pratica di un ideale avviene con un certo grado di scostamento da quell’ideale se non nel suo totale rovesciamento. Il primo esempio ce lo fornisce la Chiesa cattolica, che in origine predicava ideali di uguaglianza e fratellanza, ma già nei primi secoli dopo Cristo si distinse per la caccia agli eretici, quindi in una lotta fratricida tra coloro che praticavano la stessa religione. In seguito, la repressione si allargò agli ebrei e ai musulmani. Il cristianesimo si distinse per essere la meno tollerante delle religioni monoteistiche, quella che praticò la pulizia religiosa eliminando le persone in base al loro credo. Per lo storico David Kertzer, non si spiega lo sterminio perpetrato dai nazisti se non si riconosce la secolare politica antisemita esercitata dai papi. La Chiesa è stata, inoltre, il fondamento etico del potere; i re erano tali per diritto divino. Persino il genocidio degli indios americani venne fatto brandendo la croce. Movimenti che anelavano a quell’uguaglianza predicata dai primi cristiani, su un piano terreno e non solo celeste, furono scomunicati e sterminati. Gli albigesi nel Medioevo, i contadini di Tommaso Muntzer nel Cinquecento, i livellatori inglesi nel Seicento rappresentano esempi di protocomunismo che anelava alla realizzazione del regno dei cieli in terra. In fondo, il motto di Marx «da ciascuno secondo le proprie capacità a ciascuno secondo i propri bisogni» era proprio delle prime comunità cristiane.
Il liberalismo non è stato da meno. Gli Stati colonialisti hanno perpetrato lo sterminio dei popoli colonizzati. Mi limito ad alcuni casi, ché l’elenco sarebbe troppo lungo. Gli statunitensi nei confronti degli indiani, i coloni inglesi nei confronti degli aborigeni australiani. La colonizzazione inglese dell’India ha prodotto milioni di morti attraverso la mancata gestione delle carestie, le quali non sono mai un fenomeno naturale ma sociale. La democrazia americana, quella considerata la prima democrazia al mondo, si fonda sul genocidio degli indiani. Successivamente, la stessa democrazia permetteva prima lo schiavismo e poi la discriminazione razziale nei confronti degli afroamericani, e questo fino a tempi recentissimi. Tutt’ora si denuncia una discriminazione de facto se non de jure. Sia per quanto riguarda gli Stati Uniti che per quanto concerne le democratiche potenze occidentali di Otto-Novecento, si può parlare di uno stato duale: democratico nei confronti di chi è considerato cittadino, repressivo e discriminante nei confronti dei colonizzati o di coloro che, anche se all’interno dello stato come negli Stati Uniti, sono considerati privi degli stessi diritti goduti dalla maggioranza. È ciò che si consuma attualmente nella realtà mediorientale con la prevaricazione israeliana sui palestinesi. Lo storico Michael Mann ha evidenziato come la pulizia etnica sia un fenomeno moderno sorto all’ombra della democrazia. Si è in presenza del lato oscuro della democrazia, nella quale si può verificare che una maggioranza tiranneggi una minoranza con risultati drammatici.
Infine, il comunismo ha fallito nella sua applicazione storica, allontanatosi anch’esso dagli ideali che propugnava e che consistono nell’emancipazione di donne e uomini dalle necessità materiali e nella riappropriazione di uno status di umanità in capo alle masse sfruttate dal capitale. Comunismo e democrazia sono termini conciliabili perché entrambi fanno riferimento a un supposto potere del popolo. I teorici del comunismo, a cominciare da Marx, non avevano quella considerazione pessimista del popolo che dimostrarono di avere i liberali. Soprattutto, ma non solo, in occasione delle rivolte popolari causate dalla fame, gli esponenti liberali della classe agiata consideravano le classi inferiori plebaglia, canaglia, orda in preda a istinti bestiali e non disdegnavano di esercitare la repressione più brutale. Nell’Italia monarchica, una rivolta dettata dalla fame fu repressa a colpi di cannone dall’esercito comandato dal generale Bava Beccaris, il quale fu premiato dal re per il lavoro svolto. Se lo sguardo abbraccia l’intero globo, non si può dire che il comunismo abbia prodotto più disastri del cristianesimo o della democrazia liberale. Ciononostante non gli si concede il beneficio del disaccoppiamento tra ideale e reale.
Quello che distingue invece il fascismo dalle altre dottrine politiche e religiose è proprio l’impossibilità di disaccoppiare ideale e reale. Privo di un’ideologia originaria, il fascismo ha attinto da un magma di valori composito e ha sviluppato i suoi ideali sul campo dell’esperienza concreta, correggendo il tiro per assecondare il corso degli eventi. Si può addirittura affermare che la prassi preceda la teoria. Per questo non è possibile distinguere una ideologia fascista dalla sua realizzazione concreta. Il fascismo è soprattutto un’esperienza storica. Non è possibile fare riferimento a un fascismo che non sia stato quello storico. Inoltre, prevaricazione, razzismo, violenza squadrista, antipacifismo, militarismo, guerra di conquista e sfruttamento di una razza da parte di un’altra ritenuta superiore fanno parte integrante dei valori propugnati e non sono semplicemente una degenerazione dell’ideologia fascista. È questa la sua caratteristica peculiare. Né è possibile affiancare il termine fascista a quello di democrazia. I fascismi nascono all’interno di regimi democratici e li sovvertono per impiantare regimi totalitari. Semmai, i fascisti condividono con i liberali il disprezzo per le masse, e forse questo disprezzo, oltre alla comune appartenenza all’area di destra, rende i liberali indulgenti col fascismo ma non con il comunismo. E per questo, in nome di una malintesa parità, ci si ostina a chiedere, come contraltare a una dichiarazione di antifascismo, una analoga dichiarazione di anticomunismo.