Al constatare la trasversalità con cui si fanno affari nel contesto della spartizione quasi paritetica del bene pubblico tra i vari partiti – è quanto ci viene rivelato dai ricorrenti scandali di corruzione, dei quali “Mafia Capitale” ha rappresentato un caso esemplare – viene spontaneo domandarsi se la concorrenzialità tra le diverse formazioni politiche e le baruffe che vengono messe in opera nei talk show non siano in effetti tutta una messinscena ad uso dei “non addetti ai lavori”. E che poi, consegnati i microfoni, svestitisi dei ruoli e deposto il copione da ciascuno recitato, si vada a far bisboccia insieme, spettegolando contro questo o quello, per poi infine mettersi d’accordo sul come dare a ciascuno qualcosa (non necessariamente frutto del malaffare) senza farsi troppi danni reciproci.
In effetti è del tutto naturale che tra i “politici” si venga col tempo a stabilire una solidarietà di fondo che assume a proprio cardine la salvaguardia del potere di ceto contro le minacce che possono provenire dall’esterno (dalla magistratura, dai movimenti sociali non irreggimentati, da altri partiti che ancora non hanno accettato il “galateo” del dibattito democratico, così come è avvenuto per i 5stelle e così via). Ciò spiega l’impossibilità di una vera riforma della politica che tagli privilegi e prebende, in quanto essa finirebbe per segare il ramo dell’albero sul quale stanno comodamente appollaiati un po’ tutti: politici, amministratori, presidenti di consigli di amministrazione, alti burocrati; insomma, tutti coloro il cui potere o la cui posizione dipende in qualche modo dalla discrezionalità politica. S’è mai constatato che un ceto privilegiato, una classe sociale, un gruppo comunque detentore di potere e prebende abbia deciso consapevolmente e senza esservi costretto con la forza (comunque intesa, anche la semplice protesta di massa, della quale i francesi sono maestri) di tagliare le fonti delle proprie prerogative in nome di più alti ideali o del “bene pubblico”?
Vi sono numerosi esempi a testimonianza di questa sindrome patologica. Basti pensare al grande nodo del rapporto tra politica e giustizia, dove assistiamo all’interscambio delle parti tra giustizialisti e no, a seconda di chi è momentaneamente sotto il mirino della magistratura, che poi sfocia – quando la minaccia pare ormai coinvolgere pariteticamente tutte le formazioni politiche – in una generale e condivisa richiesta di legislazione che, in nome del garantismo o magari con l’etichetta di norme che “combattono la corruzione”, tenda a neutralizzare l’iniziativa dei giudici più coraggiosi, sì da assicurare l’intoccabilità del privilegio. O basti anche riflettere sulla sostanziale irresponsabilità della politica di fronte a malversazioni, a comportamenti politicamente equivoci, a cattive amministrazioni della cosa pubblica, periodicamente denunziati dalla Corte dei Conti specie nei bilanci regionali, dove vengono alla luce centinaia di trucchi e imbellettature che a volte sconfinano nella falsificazione dei bilanci.
E tuttavia quanto detto non impedisce che una lotta reale esista davvero, sia all’interno dei singoli partiti, sia tra partiti diversi. Nel primo caso, venuto a cessare il conflitto in cui si confrontavano diversi progetti aventi carattere complessivo, lo scontro per la leadership si configura in base a discrimini che non hanno nulla a che fare con programmi o progetti. Emerge piuttosto in primo piano la generica contrapposizione tra vecchi e giovani o una semplice invocazione del cambiamento: per realizzare cosa non si sa, per andare verso un dove che non viene indicato; l’importante è cambiare, eliminare il “vecchio” e immettere il nuovo colorato di parole generiche sulle quali non è difficile mettere tutti d’accordo; per cui lo scontro reale è quello tra apparati, gruppi di potere interni, burocrazie e rendite di posizione, così come ha dimostrato la contrapposizione Schlein/Bonaccini. «Il movimento è tutto, il fine è niente», sosteneva alla fine dell’800 il socialdemocratico Eduard Bernstein, vituperato come traditore dai socialdemocratici “ortodossi” dell’epoca. Eppure costui, nell’affermare ciò, era ben consapevole che il movimento doveva avere un contenuto concreto: la “lotta per i diritti politici dei lavoratori” e la “espropriazione dei capitalisti” come mezzo per realizzare determinati obiettivi e aspirazioni a vantaggio dell’eguaglianza e della solidarietà.
Nel secondo caso – quando si ha una contrapposizione tra partiti o coalizioni tra loro alternative – la conquista del consenso nel paese non passa attraverso la gramsciana “egemonia”, ovvero la capacità di far diventare universale e condivisa una visione del mondo e della società che, pur scaturendo da interessi particolari, risponda anche all’esigenza di mettersi al servizio dell’interesse generale. Essa invece assume i toni e la strategia di una operazione commerciale, di una scalata borsistica, la cui ragione sociale è tracciata da parole d’ordine identitarie, da bandiere sventolate aventi un indubbio valore suggestivo, ma che svaniscono nella pratica quotidiana della gestione del potere, nei decreti leggi approntati e approvati, quando i vincoli internazionali e le casematte del potere politico-finanziario fanno sentire la loro voce grazie al mainstream massmediale. E così “la voce del padrone” si impone, indifferente a chi pro tempore occupa il potere, pronta ad abbaiare – come il cane della celebre casa discografica – tramite propri grandi organi di comunicazione allorché ci si discosti, o si abbozzi l’intenzione a farlo, dagli argini prefissati della “decenza politica”.
È questa complessiva trasformazione del modo di concepire la politica e il ruolo del ceto che la rappresenta ad essere all’origine dei fenomeni corruttivi che abbiamo sotto gli occhi. Il personale politico che forma le nuove aggregazioni e i sempre nascenti movimenti politici non ha una storia comune, non ha tradizione, non ha cultura condivisa, non ha un gruppo sociale di riferimento né un territorio da rappresentare. Con la parziale eccezione del partito della Meloni – che fa riferimento, anche se in modo celato, surrettizio e ipocrita, a una tradizione di destra che, nonostante tutte le smentite, ha nel fascismo le sue radici e nella quale sta in sostanza la sua forza – i partiti maggiori attualmente esistenti (ivi compreso il Pd), sono ormai aggregati di persone che scelgono di “scendere in politica” con lo stesso spirito di chi decide di mettersi nel commercio di auto sportive, nella speranza di azzeccare l’investimento giusto, ovvero il partito nel quale il proprio “capitale umano” possa meglio fruttificare, fornendo le aspettate gratificazioni (che assai spesso non sono di natura morale). E ciò è tanto più vero quanto più si “scenda per li rami”, ovvero quanto più la politica approda ai livelli amministrativi (regionali e comunali), dove le grandi opzioni che ancora vincolano lo scenario nazionale (atlantismo, americanismo, europeismo ecc.) tendono a divenire flebili, per scomparire nella pratica amministrativa e nella spartizione di partecipate e consigli di amministrazione. E quanto più il potere si frammenta, quanto più si localizza e si sposta ai livelli basi della gestione, tanto più il ceto politico ha spazio per espandere la propria influenza, per spartirsi la ricchezza nazionale e quindi aumentare il proprio potere e la propria influenza, che ha come ricaduta la riconferma e l’espansione ulteriore di quanto già di propria pertinenza. Sta in ciò la ratio profonda del regionalismo differenziato, non a caso sostenuto pariteticamente da ceti politici contrapposti, che così trovano un punto di convergenza allorché i loro interessi sono pesantemente in gioco.
A questo ceto politico non interessano più le grandi opzioni, che vengono agite e utilizzate semmai come bandiere identitarie, specie quando si tratti di temi inessenziali per il potere economico-finanziario, come quelli civili: sulla maternità surrogata è possibile battagliare appunto perché indifferente ai centri di potere, per cui ciascuno ha la sua ora d’aria. Ma chi partecipa a tali baruffe chiozzotte su questi temi – dando così l’apparenza di una irriducibile diversità – è poi ben attento a non toccare i fili ad alta tensione su cui si giocano gli assetti di potere a livello nazionale e internazionale; le originarie posizioni timidamente divergenti sono rapidamente portate ad assimilarsi non appena il profumo del potere si fa sentire nell’aria o si giunge al governo. Ha ben appreso la lezione la premier Meloni (così dimenticando le originarie parole d’ordine e bandiere identitarie, rimaste solo per i temi ininfluenti già detti); ed è in corso di apprendistato Elly Schlein.
Bisogna allora rassegnarsi a convivere con quanto è in buona sostanza il frutto della tanta celebrata “fine delle ideologie”, oppure è ancora possibile trovare lo spazio per pensare la politica in modo diverso? Una politica in cui tornino di nuovo ad avere un posto quelle “ideologie” tanto ingiustamente vituperate, ma che costituivano il carburante indispensabile per evitare di ridurla a mero mestiere e arrivismo? Solo rispondendo a queste domande è possibile dare di nuovo senso alla rappresentanza politica, attualmente basata su flebili legami, e così cercare di avviare a soluzione la crisi della coscienza civile, morale e sociale dell’Italia d’oggi.
Analisi perfetta che molti commentatori politici, conduttori televisivi e giornalisti vari, fingono di non sapere.