Sanità: no all’autonomia regionale differenziata

Volerelaluna.it

16/02/2023 di:

Il principale problema del Servizio Sanitario Nazionale è oggi lo strangolamento finanziario in funzione della progressiva privatizzazione della risposa al bisogno pubblico di assistenza. Lo si denuncia sulla stampa e lo si patisce ogni giorno da parte di cittadini e professionisti. A ben vedere ad esso è funzionale anche il processo attuazione della Autonomia Regionale Differenziata (ARD), già bipartisan, perseguita dal governo e dalla maggioranza in coerenza con il suo programma elettorale, e purtroppo, con l’opposizione parziale o vacua di settori prevalenti dell’opposizione. Lo segnalo dal 2019, e da ultimo nell’autunno 2022.

In tema di Autonomia differenziata regionale differenziata non si può non apprezzare, per la sua esauriente documentazione, il Report di Gimbe sull’art.116, comma 3, Costituzione pubblicato nei giorni scorsi in versione aggiornata (file:///C:/Users/Livio/Downloads/2023.02.10%20Report_Osservatorio_GIMBE_2023.01_Regionalismo_differenziato_in_sanita.pdf). Il report di Gimbe pecca però, a mio avviso, di una contraddizione sul piano politico sanitario: approda a una posizione, pragmatica di (pretesa) riduzione del danno, del tipo “meglio no, ma se proprio, bisogna che…”. È una posizione perdente nei fatti perché dà l’alibi (“è possibile, se però”) ai sostenitori della ARD, mentre il fallimento dell’autonomia regionale in Sanità è già macroscopico, inconfutabile. E non c’è neppure bisogno di rifarsi alla gestione dell’epidemia di Covid 19. Basta rifarsi ai LEA, i cui tassi di assolvimento sono non un mero indizio ma una prova di fallimento certa e ripetuta negli anni, così come lo è la mobilità sanitaria interregionale, entrambe indagate efficacemente dal Report, così come lo è la situazione dei professionisti costretti in gabbie salariali, precarietà e progressiva difformità di rapporti contrattuali tra le diverse regioni. Per questo, se si è coerenti con l’impegno/obbiettivo politico di eliminare le disuguaglianze e le disfunzioni dell’assistenza sanitaria pubblica finanziariamente strangolata e già normativamente troppo regionalizzata, occorre opporsi all’ulteriore balcanizzazione della sanità pubblica con la Autonomia regionale differenziata “senza se e senza ma”. Non ci sono alternative.

Vedo lo stesso errore di pragmatismo e (pretesa) riduzione del danno nella proposta di legge di iniziativa popolare di M. Villone (http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/raccolta-firme-proposta-di-legge/), che si propone di porre vincoli sulle materie, sanità compresa, e sulle procedure di attuazione della ADR (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2022/11/17/il-governo-preme-lacceleratore-sullautonomia-differenziata/) e che ha raccolto promotori anche in ambito sanitario. Non si può non dare atto che in materia di sanità la LIP di Villone, fa due sacrosante operazioni. La prima (art.117, comma 2, lett. m) è prevedere, in luogo dei «livelli essenziali delle prestazioni» (LEA), i «livelli uniformi delle prestazioni» (LUA), con trasformazione dei primi in questi ultimi. Non è mera questione nominalistica. Si tratta di affermare che in tutte le regioni deve essere perseguita e assicurata l’uguaglianza (cfr. art. 3 Costituzione) quali/quantitativa dell’assistenza sanitaria e non solo la mera “essenzialità”, la quale comporta necessariamente livelli diseguali e difformi di assistenza in relazione alla capacità di spesa e di amministrazione delle singole regioni. La seconda è prevedere che «tutela della salute e servizio sanitario nazionale» siano inserite tra le materie di «esclusiva legislazione dello Stato» (art.117, comma 2, lett. m). Purtroppo, però tale previsione è inficiata da quella successiva di mantenere tra le «materie di legislazione concorrente» (tra Stato e Regioni) la «assistenza e organizzazione sanitaria» (art. 117, comma 3) riportandola con ciò nell’ambito delle materie devolubili all’autonomia legislativa regionale. Non si capisce che logica e che necessità vi siano in questa previsione. È evidente, infatti, che legiferare in ordine al Servizio Sanitario Nazionale, è anche legiferare in tema di assistenza e organizzazione sanitaria, come è accaduto con la legge n. 833/1978 e le successive modificazioni e come è avvenuto ad esempio lo scorso anno, in piena vigenza di fatto dell’autonomia regionale differenziata in sanità, con l’adozione, previa intesa con la Conferenza Stato Regioni, del decreto ministeriale n. 77/1922 sugli standard anche organizzativi della medicina territoriale.

Entrambe le sacrosante, pur col limite precitato, previsioni della legge di iniziativa popolare di Villone sono inficiate dai limiti oggettivi della sua stessa iniziativa politica. Il primo e più evidente limite, segnalato dallo stesso prof. Villone con l’acutezza e la onestà intellettuale che gli sono proprie, è che la Costituzione vigente è già incompatibile con una attuazione dell’art. 116, comma 3, che non sia «in diretta connessione con una specificità territoriale» essendo tale specificità «requisito essenziale per la concessione di “forme e condizioni particolari” di autonomia». L’art.116, comma 3, infatti, argomenta il prof. Villone, è norma derogatoria dell’art. 5 della Costituzione («La Repubblica, una e indivisibile») e comunque è vincolata all’art. 3 («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini». Non si vede quindi per quale motivo dovrebbe essere modificata una Costituzione che è già baluardo giuridico inefficace non perché in sé lacunosa, ma perché non fatta valere (come nel caso delle richieste per la Sanità di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, nessuna delle quali, come si evince dal report Gimbe ha il carattere della “specificità territoriale”, così come nel caso delle altre 22 materie). «Tale lettura non è stata fin qui seguita» – ammette lo stesso prof. Villone, e segnala –: «Va però detto che nessuna riforma testuale della Costituzione potrà mai di per sé bloccare la deriva verso la frantumazione sostanziale del paese. L’unità della Repubblica e l’eguaglianza dei diritti sono difesi anzitutto con la battaglia politica». Il secondo limite politico è l’(auto)illusione che «una riforma mirata del testo costituzionale può creare condizioni migliori perché quella battaglia sia vinta», ponendola in alternativa a «proposte radicali, come ad esempio la abrogazione dell’intero Titolo V, e il ritorno al testo originario della Costituzione del 1948», che «sarebbe di bandiera per alcuni, ma non avrebbe concrete possibilità di essere assunta nei processi politici e nelle sedi istituzionali». Ma quali «concrete possibilità di essere assunta nei processi politici e nelle sedi istituzionali» avrebbe oggi l’iniziativa di legge popolare, che postula la centralità del Parlamento e la riduzione degli ambiti dell’autonomia regionale differenziata, a fronte di un governo di destra-centro e della sua grande maggioranza parlamentare che si sono affermati elettoralmente e che operano sulla base di un patto di riforma istituzionale che prevede sia il presidenzialismo che l’autonomia regionale differenziata? Nessuna. Esattamente come quelle che il prof. Villone definisce radicali e di mera bandiera.

Governo e maggioranza parlamentare, pur con le contraddizioni ideologiche e politiche (centralismo statalista versus regionalismo secessionista autarchico) che le caratterizzano proseguiranno anche in Parlamento sulla strada della autonomia regionale differenziata e non faranno propria la legge di iniziativa popolare che al massimo potrà contare in Parlamento su una opposizione comunque minoritaria. L’autonomia regionale differenziata potrà essere fermata solo da altri “ostacoli” che mobilitino l’opinione pubblica nelle varie regioni e con ciò mettano a repentaglio il sistema di consenso e governo politico e la possibilità materiale di attuarla (https://volerelaluna.it/politica/2022/11/28/autonomia-differenziata-unita-della-repubblica-e-uguaglianza-dei-diritti/).

Un ostacolo sarà che i Presidenti delle regioni con minore sviluppo dei servizi, anche sanitari, e minore gettito fiscale richiedano che, in via preliminare alla attuazione della ARD, siano ridotte le differenze strutturali tra regioni. Ciò sarà impossibile essendo il relativo costo già stimato in decine e decine di miliardi aggiuntivi alle attuali dotazioni del fondo sanitario nazionale, come si desume dai Rapporti della Corte dei Conti (ultimo quello del gennaio 2023), e sostenerlo è in contrasto con la politica dell’attuale governo e della sua maggioranza. Entrambi, come i precedenti, considerano infatti, il SSN non un settore su cui investire per il benessere sociale e il PIL, ma un settore le cui spese sono da tagliare in nome dell’austerity, salvo che non siano in gioco i profitti delle aziende distributrici di fonti energetiche fossili (spacciati come costi) o quelli delle multinazionali del farmaco.

Un altro ostacolo efficace sarebbe lo svilupparsi di una forte opposizione sindacale dei professionisti e dei lavoratori del SSN, sia a livello nazionale che regionale e locale, come, mutatis mutandis, è accaduto e sta accadendo in Francia, Inghilterra e Spagna, a difesa di remunerazioni e condizioni di lavoro che sarebbero ulteriormente “precarizzate” dalla distruzione della contrattualistica nazionale. Nei mesi scorsi ci sono stati pronunciamenti unitari contrari all’Autonomia regionale differenziata sia delle componenti autonome che di quelle confederali in Sanità, e anche di esponenti degli ordini professionali. È però necessario che si passi dalle parole sindacali ai fatti sindacali inserendo l’opposizione alla ARD nelle piattaforme rivendicative di tutte le vertenze sindacali compatibili, non solo nel comparto Sanità. Ed è anche necessario che il sindacalismo apra un dialogo a tal fine con le Associazioni dei pazienti, al momento mute, e con i sindaci, tutti necessariamente interessati alla funzionalità delle strutture del SSN sul territorio che amministrano. Molti sindaci ne hanno preso consapevolezza ed hanno cominciato ad opporsi, a cominciare da quelli di Napoli, Bari e Bologna.