Riprendiamoci il Comune: contro la privatizzazione della funzione pubblica

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Il 31 gennaio scorso, presso il Centro congressi la Nuvola di Roma, Poste italiane ha presentato il progetto Polis – Case dei servizi di cittadinanza digitale alla presenza del Capo dello Stato, della presidente del Consiglio dei ministri, di una moltitudine di ministre e ministri e dei circa 7 mila sindaci dei piccoli Comuni interessati dall’iniziativa. Chi si occupa di enti locali aveva formulato proposte simili oltre un ventennio fa, soprattutto per cercare di scongiurare spopolamento e abbandono del territorio, quello interno e marginale in particolare. Necessità oltremodo aumentata in tempi di transizione digitale. Il progetto Polis è finanziato per 800 milioni di euro dai fondi del PNRR e per altri 400 milioni di euro a carico di Poste italiane e dovrebbe interessare circa 7 mila uffici postali nei centri con meno di 15 mila abitanti in aree disagiate, ove la presenza dello Stato non sempre appare rinvenibile. In tali uffici sarà installato il cosiddetto “Sportello unico”, una piattaforma multicanale per la fruizione di servizi erogati dalla Pubblica Amministrazione, oltre alla realizzazione di interventi di trasformazione green e alla creazione di 250 spazi di co-working. Si tratta ovviamente di un progetto sulla carta alquanto positivo: perché va a incidere sulla crescita digitale del Paese, soprattutto ove ce n’è più bisogno, nelle aree periferiche e nei piccoli Comuni; perché riducendo gli spostamenti delle persone rappresenta anche un contenimento degli impatti ambientali dovuto ai trasporti; perché dovrebbe facilitare la vita di tanti cittadini, soprattutto quelli che hanno maggiori difficoltà e così via.

Ciò detto, resta incomprensibile il motivo per il quale, come ha sottolineato la CGIL – Funzione pubblica, «a fronte della bontà dei propositi di mantenere il presidio degli uffici postali e di ridurre il divario digitale, non venga fatto un investimento altrettanto importante sui servizi che i Comuni erogano con altrettanta capillarità ma in forma diretta: i servizi demografici». «Pur essendo stati questi servizi – continua il sindacato – protagonisti indiscussi del processo di creazione dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente, la banca dati alla base delle nuove possibilità di gestione telematica dei servizi anagrafici, non sono oggetto di alcun investimento specifico teso a garantirne i livelli occupazionali e la qualificazione dei lavoratori. Non un euro è stato messo a disposizione per assumere ulteriori unità su questi servizi, a fronte di una dinamica occupazionale che dal 2011 al 2020 ha visto sparire negli enti locali il 17% del personale per un ammontare di oltre 107.000 addetti. I corsi abilitanti del ministero degli Interni per le figure necessarie ai servizi demografici vengono fatti con il contagocce, pur essendo queste figure le sole in grado di trattare a norma di legge dati estremamente delicati. Si continua a destinare a soggetti privati la possibilità di gestire questi dati senza porsi il problema che solo dipendenti pubblici abilitati possono risolvere incongruenze tra i dati dichiarati e quelli registrati. La crescita dei punti di accesso deve tener conto delle indicazioni del garante della privacy e delle indicazioni del ministero dell’interno, che già si sono espressi sulla non praticabilità dell’attivazione di convenzioni con soggetti privati, quali tabaccai ed edicole». «L’unica soluzione – conclude il sindacato – è quella di rafforzare i servizi comunali senza cadere nel paradosso di tener aperti gli uffici postali dei piccoli Comuni mentre chiudono i servizi demografici dei Comuni. È indispensabile investire sui servizi demografici abrogando tutti i vincoli assunzionali che gravano sui Comuni; assumendo personale dedicato a gestire i dati anagrafici dei cittadini; garantendo a questo personale il corretto inquadramento e la valorizzazione delle competenze; garantendo un ciclo formativo costante e diffuso. I Comuni, soprattutto i più piccoli, sono l’istituzione più vicina ai cittadini che deve continuare a garantire i diritti costituzionali per questo riteniamo non più rinviabile un investimento straordinario».

La “privatizzazione dei servizi comunali” è in atto da anni: dall’acqua ai rifiuti, dai servizi sociali a quelli scolastici, dai supporti esterni per i servizi demografici ai servizi di riscossione, sono sempre più i privati a occuparsi di primarie funzioni pubbliche, svilendo progressivamente il ruolo dei nostri Municipi. Contro questa pericolosa deriva c’è ora la proposta di due firme, per i beni comuni e per una finanza al servizio delle persone. Due firme contro la privatizzazione dei servizi pubblici e per un nuovo modello sociale ed ecologico fondato sulle comunità locali. Sta partendo infatti in questi giorni a livello nazionale la campagna Riprendiamoci il Comune, promossa da decine di organizzazioni e movimenti sociali (dall’Arci e dalle Acli a Cittadinanzattiva, da ATTAC Italia a Medicina Democratica, dal Forum dei movimenti per l’acqua all’associazione dei Comuni Virtuosi) e che punta a raccogliere nei prossimi sei mesi 50 mila firme a sostegno di due proposte di legge di iniziativa popolare per la riforma della finanza locale e la ripubblicizzazione della Cassa depositi e prestiti.

La prima proposta di legge si prefigge una profonda riforma della finanza locale. La nostra Costituzione all’art. 118 afferma che le funzioni amministrative sono attribuite in via prioritaria ai Comuni, riconoscendone il ruolo di luoghi della democrazia di prossimità. Sono infatti i Comuni gli enti di riferimento delle/degli abitanti di un territorio, a cui devono garantire coesione sociale, servizi pubblici e beni comuni. Con l’avvento delle politiche liberiste e di austerità, la funzione pubblica e sociale dei Comuni è stata fortemente pregiudicata. Il patto di stabilità e il pareggio di bilancio – misure economiche di drastico contenimento della spesa pubblica – hanno profondamente mutato la natura dei Comuni, che, da garanti dei diritti fondamentali, sono divenuti enti la cui unica preoccupazione è la stabilità dei conti economici. In seguito a questo, i Comuni hanno tagliato pesantemente la spesa per i servizi e per gli investimenti, privatizzato i servizi pubblici locali e messo sul mercato il territorio e il patrimonio immobiliare. Tutto questo non trova alcuna giustificazione: infatti, la quota parte del debito pubblico nazionale attribuita ai Comuni non supera l’1,5%! Di fatto, il debito pubblico è stato usato come alibi per mettere i Comuni con le spalle al muro e costringerli a mettere sul mercato i beni appartenenti alle proprie comunità territoriali. Oggi tutti i Comuni si trovano in difficoltà finanziarie e un’alta percentuale degli stessi è in situazione di dissesto o predissesto finanziario. Ma se un Comune fallisce o mette sul mercato beni comuni e servizi pubblici, si disgrega una comunità territoriale. La proposta di legge afferma la necessità dell’equilibrio finanziario, ma si oppone all’ossessione del pareggio di bilancio, cui tutto deve essere sacrificato, a partire dai beni comuni e dal patrimonio pubblico, inserisce come obiettivo per i Comuni il raggiungimento del pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere, abolisce tutti i vincoli all’assunzione di personale e consente di reinternalizzare i servizi pubblici, a partire dall’acqua. La proposta di legge vuole fermare la cementificazione del territorio e la svendita degli immobili pubblici e delle partecipazioni negli enti che gestiscono i servizi pubblici, prevede che i Comuni diventino il fulcro di un nuovo modello sociale ed ecologico, prevede la partecipazione diretta delle persone alle scelte fondamentali dei Comuni e il finanziamento agevolato degli investimenti, basato sul risparmio postale conferito a Cassa Depositi e Prestiti (280 miliardi di euro).

Ed è proprio rivolta alla Cassa Depositi e Prestiti la seconda proposta di legge. La nostra Costituzione all’art. 47 incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme e ne promuove la destinazione a fini di interesse generale. Oltre 20 milioni di persone hanno affidato i loro risparmi, attraverso le Poste, a Cassa Depositi e Prestiti, che attualmente gestisce 280 miliardi di euro. Cassa Depositi e Prestiti è nata nel 1850 proprio a questo scopo, e, fino al 2003, aveva solo due compiti: tutelare il risparmio delle persone e utilizzarlo per finanziare a tassi agevolati gli investimenti dei Comuni. Grazie a questo meccanismo, per tutto il secolo scorso, i Comuni hanno potuto costruire asili nido, scuole, ospedali, parchi, migliorando la vita delle persone nei paesi e nelle città. Con l’avvento della stagione delle privatizzazioni, nel 2003, anche Cassa Depositi e Prestiti è stata trasformata in una società per azioni e al suo interno sono entrate le Fondazioni Bancarie. Da allora, Cassa Depositi e Prestiti si comporta nei confronti dei Comuni come una qualsiasi banca, applicando tassi di mercato e finanziando anche la vendita del patrimonio pubblico e la privatizzazione dei servizi di acqua, energia, rifiuti e trasporti. Così facendo, Cassa Depositi e Prestiti utilizza i risparmi delle persone per espropriarle di beni comuni e servizi. La proposta di legge chiede che Cassa Depositi e Prestiti diventi un ente di diritto pubblico (analogamente alla sua omologa francese) e uno strumento al servizio delle comunità locali e prevede che i risparmi delle persone siano utilizzati per finanziare a tassi agevolati il riassetto idrogeologico del territorio, la ristrutturazione delle reti idriche, la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la costituzione di comunità energetiche e la conversione energetica degli edifici pubblici, la gestione partecipativa dei beni comuni, il riutilizzo abitativo e sociale del patrimonio pubblico, la mobilità sostenibile, la trasformazione ecologica della filiera del cibo e delle attività produttive. Una proposta di legge che prevede che le scelte di destinazione dei risparmi delle persone siano fatte attraverso la partecipazione delle stesse, mette a disposizione delle comunità locali 280 miliardi di euro di risparmi che oggi sono dirottati su interessi privatistici.

Tutte le info sulla Campagna su: www.riprendiamociilcomune.it

Gli autori

Giovanni Caprio

Giovanni Caprio, pubblicista, già ricercatore sociale e direttore di istituzioni pubbliche e di fondazioni private, si occupa prevalentemente di governo locale, partecipazione e beni comuni.

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