Il potere per il potere e la fine della politica

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Le prossime elezioni in due regioni cruciali come Lazio e Lombardia hanno fatto propendere molti ad essere dell’avviso che, pur di vincere, si potrebbe e dovrebbe comunque appoggiare un candidato che sulla carta e nella pratica è assai lontano dai propri programmi e dalla propria concezione della politica; ad es., sostenere in Lombardia la candidatura di Letizia Moratti anche da parte di chi è stato sempre su posizioni diametralmente opposte e l’ha sinora considerata un avversario, come il Pd o addirittura il M5S. Sappiamo che tale possibilità è tramontata e nondimeno il fatto che essa sia stata contemplata anche da parte di chi si ritiene la parte “pensante” del paese, merita qualche considerazione. Siamo infatti in presenza – a mio avviso – del sintomo di una profonda trasformazione della politica, avvenuta dopo che le malfamate ideologie sono state fatte fuori e i partiti sono pervenuti a una “nuova”, “moderna”, visione del loro stare nella società.

Questo nuovo modo di concepire la politica è venuto pienamente alla luce con la transizione alla “seconda repubblica” e la scomparsa dei grandi partiti di massa, ancorati a una solida tradizione di esperienze storiche e di radici ideali (Pci, Dc, Psi ecc.); nondimeno i suoi germi degenerativi si erano avvertiti già prima di “Mani pulite”, che ha segnato una sorta di spartiacque, lungo una china nella quale il confronto politico s’è via via trasformato in una guerriglia personalistica dove le diverse culture politiche hanno vieppiù sfocato in lontananza per essere sostituite da strategie di comunicazione al servizio dell’ego dei diversi leader, che si confrontano in singolar tenzoni, il cui premio è la conquista del consenso e il disarcionamento dell’avversario. I partiti, non più ampi collettori di idee e modi di vedere la realtà, si trasformano in composite aggregazioni di interessi aventi al loro centro un ceto politico autoreferenziale la cui unica ragion d’essere si condensa nel mantenimento e nell’ampliamento del proprio insediamento nei gangli dirigenziali, a cui mira l’ottenimento del consenso e il conseguente “spoil system”, da realizzare in qualunque modo. Dal potere perseguito per realizzare un progetto ideale si passa all’artificiale e opportunistico approntamento di un insieme o accozzaglia di idee pensate al solo scopo di permettere di raccattare il massimo consenso, pervenire al potere, mantenerlo e possibilmente estenderlo (è questo il senso delle ricette populiste), ma restando all’interno dei vincoli internazionali la cui legittimazione è indispensabile per non essere in breve sbalzati dai posti di comando, anche a costo di “correggere” vistosamente quanto prima sostenuto. Il potere da mezzo strumentale diventa causa finale della lotta politica; da veicolo finalizzato alla realizzazione di un programma, diventa unico fine, preoccupato solo della gestione di sé stesso. Importante è vincere, non realizzare un programma; e per vincere qualunque programma o slogan è buono, purché sia efficace.

In tal modo la scelta offerta dai principali partiti agli elettori è vieppiù diventata poco differenziata nella sostanza, sicché i cambiamenti a livello di ceto politico hanno conseguenze sempre meno visibili sulle politiche effettivamente messe in atto, specie in alcuni settori cruciali come sanità, scuola, gestione economica, per i quali non v’è soluzione di continuità tra partiti di centro-sinistra e centro-destra. Ciò in quanto – come han ben detto i politologi R.S. Katz e P. Mair – «i partiti principali, e la maggior parte dei partiti minori, hanno di fatto formato un cartello, attraverso il quale proteggono i propri interessi in modo da ridurre la capacità del loro mandante di un tempo – l’elettorato – di controllarne effettivamente l’operato, che si suppone debba essere l’effetto del mandato elettorale. Mentre l’apparenza della concorrenza è preservata, per quanto riguarda la sostanza politica essa è diventata spettacolo, uno spettacolo per gli spettatori della “democrazia del pubblico” [audience democracy]». Il possesso quasi monopolistico di gran parte dei massmedia assicura l’impossibilità di una opinione pubblica effettivamente indipendente, che è condizione imprescindibile del controllo democratico. Il potere in quanto tale è così eternato, allo stesso modo di come lo sono le diseguaglianze strutturali o le divisioni sociali: si tratta di cambiare – quanto più possibile lentamente e parzialmente – solo il personale che lo interpreta attraverso la ingegnerizzazione di sempre più sofisticati sistemi di cooptazione aventi nel sistema elettorale la loro massima espressione. Al di là dei proclami ideologici, le politiche concrete messe in atto – purché venga preservata l’immutabilità del quadro generale disegnato dai poteri finanziari transnazionali – sono del tutto reversibili e intercambiabili, avendo esse solo un valore cosmetico o un “effetto bandiera”, specie per settori in sostanza indifferenti al potere costituito (come nel caso dei diritti civili).

Ai discrimini su programmi, progetti, visioni ideali o anche concezioni del mondo fatte di valori e sentimenti, è sostituita la generica contrapposizione tra vecchio e nuovo o una semplice e generica invocazione al cambiamento: per realizzare cosa non si sa e per andare verso un dove che non viene indicato; l’importante è cambiare, eliminare il “vecchio” e immettere il “nuovo”. Esemplare in ciò quanto tempo fa Maria Elena Boschi, ministro del Governo Renzi, ha risposto nel corso di una intervista televisiva alla domanda sul significato di “essere di sinistra”: «I valori della sinistra di oggi sono quelli del cambiamento, a mio avviso. Essere di sinistra significa non essere tanto custodi del passato, della memoria, ma in qualche modo anticipare il futuro, costruire il futuro, quindi essere riformisti, per l’appunto». Eraclito al posto di Marx, o di Turati, o di Gramsci, o di Berlinguer. Il cambiamento comunque e in ogni caso: non importano i suoi contenuti, né viene espresso in modo implicito o esplicito un giudizio di valore o una linea di tendenza verso qualcosa. E non a caso a tale vuotezza di contenuti faceva da contrappasso l’argomento decisivo di molti entusiasti sostenitori del premier Renzi, per cui con lui, finalmente, “la sinistra vince”, finendo di essere la piagnucolosa versione dei soliti estremisti mai contenti o la devitalizzata rappresentazione di un ceto politico da rottamare: essa – si pensava – era uscita dalla sua condizione di perpetua minoranza, di permanente opposizione, per diventare protagonista.

È il prodromo di quanto detto a proposito della tesi di chi ha pensato che “la sinistra” dovesse appoggiare la Moratti; sono infatti chiari esempi di capovolgimento dei termini della questione rispetto all’età ideologica: dal conquistare il governo per realizzare un programma (un progetto, degli ideali, chiamateli come volete) all’andare al governo perché così si vince e finalmente non si è all’opposizione. Cosa si realizzi grazie a ciò non ha importanza: la sinistra è il cambiamento e qualunque trasformazione va bene purché questa comporti la continuità nella gestione del potere e non lo minacci in alcun modo. In questa smania di protagonismo, di essere al centro, di stare sul palco dei vincitori, di arraffare e comunque mantenere il potere si è consumata la nemesi di un ceto politico che degli ideali della sinistra ormai ha conservato solo l’involucro esteriore, nella sua più perversa incarnazione: lo stalinismo, ovvero la conquista del potere e la sua mera gestione, con la conseguente identificazione con le istituzioni e lo Stato, tali e quali come ereditati dal passato. L’importante è governare e non perdere la maggioranza: ideologie, programmi, alleanze, interlocutori sono funzionali a ciò, componenti intercambiabili e variabili nel tempo purché adempiano al loro ruolo di consolidamento del potere conquistato.

È proprio questa l’ottica di quel renzismo di ritorno che permette di essere indifferenti alla caratura politica e alla storia personale di una candidata come la Moratti, avendo di mira solo la vittoria: importante è non continuare ad essere esclusi dai sistemi che gestiscono il governo, perché non è rilevante ciò per cui si governa, ma che si governi, nel contempo rassicurando, con un candidato ben accetto all’establishment lombardo, che nella sostanza nulla cambierà, se non qualche particolare decorativo e retorico della politica di fatto seguita. È tale nuova realtà della politica, che ha avuto piena espressione con la stagione successiva al tracollo dei partiti della prima repubblica, a segnare l’inizio della sua degenerazione, dando al tempo stesso origine – in ultima analisi – alla crescente disaffezione dell’elettorato, che trova difficile individuare una propria rappresentanza politica e di conseguenza si rifugia sempre più nell’astensione.

Gli autori

Francesco Coniglione

Francesco Coniglione, professore di Storia della filosofia nella Facoltà di Scienze della Formazione di Catania, è stato presidente nazionale della Società Filosofica Italiana.

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