Il senso della pace

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Sappiamo bene che il tema della pace non può essere limitato alla disputa sulla guerra in Ucraina. Ma è certo che l’aggressione della Russia al territorio dell’Ucraina ha reso attuale l’articolo 11 della Costituzione, come non era successo per decenni. E proprio questa è una delle colpe storiche dell’Italia: avere per troppo tempo trascurato le indicazioni che sono contenute nell’articolo 11. Ora i nodi vengono inevitabilmente al pettine: la guerra in Ucraina ci ha posto improvvisamente davanti a una drammatica scelta tra due concezioni della pace, della politica e del futuro.

Quando usarono l’espressione “ripudia la guerra” i costituenti intesero prendere le distanze nette dal concetto stesso di guerra. Quale sia la forza di quel verbo “ripudia” lo ha spiegato già don Lorenzo Milani: non vuol dire solo rifiutare o condannare la guerra. È l’indicazione di un modo diverso di impostare i rapporti tra gli Stati. I costituenti scrissero la parola ripudia appunto perché avevano nella mente un futuro senza guerre: cioè non solo senza aggressioni alla libertà di altri popoli, ma anche senza tentazioni di ricorrere alla guerra come mezzo di risoluzione di qualsiasi controversia internazionale. Durante le vicende della guerra in Ucraina è stato citato spesso l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, stipulata nel giugno 1945. Questa norma dice che è salvaguardato «il diritto naturale di difesa individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Per lunghi mesi il Parlamento e la grande stampa italiana ne hanno dedotto che l’Italia potesse lecitamente inviare armi all’Ucraina, anche perché – si è ripetuto tante volte – se un paese aggredito non ha le armi, è necessario che qualcuno gliele fornisca. L’ho sentito ripetere in TV anche dall’onorevole Bersani (un politico stimabile come pochi), che ha aggiunto: bisogna dare le armi all’Ucraina perché la pace si fa tra uomini vivi. Curioso modo di argomentare: non sono le armi che garantiscono di arrivare vivi alla pace, anzi. È una tregua immediata, semmai, che garantirà che si arrivi da vivi al tavolo della pace. Ma noi anziché batterci in tutti i modi per una tregua dello scontro (è la via indicata dall’articolo 11 Costituzione) continuiamo a inviare armi che fanno aumentare il numero dei morti! Mandare le armi a un paese in guerra è un modo di partecipare, sia pure indirettamente, alla guerra. Eppoi l’articolo 51 della Carta dell’ONU prevede che sia il Consiglio di Sicurezza, e non i singoli Stati, a stabilire quali siano le azioni opportune per garantire la pace.

Comunque sia, inviare armi, per quanto riguarda l’Italia, contrasta irrimediabilmente con la nostra Carta costituzionale che, nel ripudiare la guerra, ha stabilito il dovere per ogni cittadino di difendere la propria patria, ma non la possibilità di partecipare direttamente o indirettamente alla difesa delle patrie altrui. Dovunque ci sia un conflitto internazionale lontano dalla nostra patria, l’imperativo della Costituzione è che non si possa risolvere con la nostra partecipazione, neppure indiretta, alla guerra. Di fronte a queste controversie la nostra Costituzione ha gettato le basi per una convivenza capace di sconfiggere i mali endemici del mondo: le malattie, la fame, la sete e l’ignoranza. Ha scelto cioè, in armonia con lo spirito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, un nuovo ordine nel quale ogni conflitto tra gli Stati viene preso in carico dall’ONU che si occupa di ristabilire l’ordine e la sicurezza. Si dirà: ma l’ONU non funziona e il Consiglio di Sicurezza non interviene. Bene, allora diamoci da fare per risolvere questo problema. Ma non mi pare saggio prenderlo a pretesto per stravolgere il significato dell’articolo 11.

Per la nostra Costituzione l’appartenenza alle organizzazioni internazionali e il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie non possono entrare in contraddizione. Eppure uno sguardo alla nostra storia recente ci dice che non è stato sempre così. La NATO, nata come un’organizzazione difensiva, ci ha trascinato talvolta in avventure di guerra. È successo in Iraq, nella ex Iugoslavia, in Afghanistan e in molte altre parti del mondo. Noi ipocritamente le abbiamo chiamate “missioni di pace” o “missioni umanitarie”. Il fatto è che la NATO non ha sempre rispettato i suoi caratteri di alleanza difensiva. Semmai si può dire che ha cominciato già in passato a mostrare preoccupanti tratti aggressivi. Recentemente gli Stati Uniti hanno ammesso di avere cominciato ad armare l’Ucraina sei anni fa! E, d’altra parte, nel corso degli anni la NATO si è spinta fino in Polonia, ai confini con l’Ucraina. Aveva ragione Papa Francesco: «Siete andati lì ad abbaiare fin sotto casa».

Si sostiene che abbiamo bisogno di distinguere la guerra giusta dei paesi aggrediti, dalla guerra ingiusta degli aggressori. Sul concetto di guerra giusta si è consumato in questi mesi a danno dell’opinione pubblica un colossale inganno collettivo. Si è fatto perfino ricorso a un argomento suggestivo: cioè che senza la guerra giusta partigiana non sarebbe stata scritta neppure la nostra Costituzione. Chi conosca la nostra storia sa che la guerra partigiana fu prima di tutto il rifiuto di ogni logica di guerra e soprattutto della folle idea, fatta propria dai nazisti e dai fascisti, che la guerra sarebbe stata la levatrice di una storia nuova. È dunque possibile parlare di guerra giusta e di guerra difensiva? Credo che anche su questo punto una parola definitiva l’abbia detta don Milani: «Nella guerra futura […] è noto che l’unica “difesa” possibile in una guerra di missili atomici, sarà di sparare 20 minuti prima dell’“aggressore”. Ma in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa. Oppure immaginiamo uno stato onestissimo che in sua “difesa” spari 20 minuti dopo. Ma in lingua italiana questo si chiama vendetta e non difesa». Oggi queste parole, scritte quasi 60 anni fa, risuonano nella nostra mente ogni volta in cui le maggiori potenze militari si lanciano reciprocamente la minaccia di usare armi nucleari.

Ma c’è un significato più profondo nel ripudio della guerra e nella scelta della pace. Il perseguimento della pace non è solo un’aspirazione etica o un pensiero per anime belle. Occorre il passaggio, come diceva padre Balducci, dall’etica alla politica. Per la nostra Costituzione l’edificazione della pace è un impegno politico. Nell’espressione “ripudia la guerra” è racchiusa la visione di un mondo profondamente diverso da quello che ha provocato la tragedia di due guerre mondiali nel ‘900. Questo è il significato profondo della scelta operata dalla Costituzione: perseguire “la pace e la giustizia tra i popoli”, cioè la costruzione di un mondo giusto nel quale tutti possano godere dei diritti inviolabili dell’uomo. Un mondo in pace è un mondo nel quale il diritto alla vita non sia messo in pericolo dai profitti dei fabbricanti e dei venditori di armi che hanno la forza di condizionare i parlamenti e i governi di tutto il mondo. Molti Stati in Occidente, che hanno deliberato autonomamente l’aumento delle spese militari, mettono a repentaglio la pace nel mondo. “Costruire la pace” è invece la sintesi di un progetto di grande respiro civile e sociale. Significa innanzitutto assicurare la dignità e l’uguaglianza a chi è meno uguale degli altri. Un mondo di diseguali, di sfruttati e di oppressi è inevitabilmente un mondo senza pace. La pace non si costruisce una volta per tutte: è un progetto che si adatta al tempo che viviamo. Che si propone di eliminare tutto ciò che nella storia dei popoli ha rappresentato la ragione principale delle guerre: la fame, la sete e le malattie dei paesi più poveri. Le insopportabili diseguaglianze che vedono pochi ricchissimi contrapposti alla povertà di moltitudini sterminate di uomini e donne in tutto il mondo sono un ostacolo alla pace. Lo aveva capito bene David Sassoli che ci ha lasciato poco tempo fa: «La pace è oggi minacciata dalle armi che sparano, dal riarmo nucleare su cui troppo spesso […] si stende un silenzio ipocrita. Ma è minacciata anche dalla fame, dai fanatismi, dalla desertificazione, dalla volontà di potenza dai nazionalismi vecchi e nuovi, dalle crescenti disparità di risorse e di opportunità che diventano talvolta muri invalicabili per milioni di giovani adulti».

Gli autori

Beniamino Deidda

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One Comment on “Il senso della pace”

  1. I Costituenti più illuminati forse immaginavano scale verso il cielo dei diritti, ma sapevano bene che la loro edificazione sarebbe andata ben più a rilento di tutto il resto. Anzi, nel caso dell’art. 11, era quantomeno già evidente che il Consiglio di Sicurezza ONU non poteva fungere davvero da pacificatore a monte delle risoluzioni nazionali o dei trattati internazionali. Era infatti l’elite delle nazioni vincitrici. Non sono solo i rapporti di forza, ad aver congelato nei decenni quell’elite. Sono anche le norme internazionali, che i Costituenti conoscevano, e che sin dall’inizio erano palesemente pensate per cementare i rapporti di forza. Sullo sfondo, una selva di dichiarazioni di diritti dei singoli e nessuna vera evoluzione nelle dichiarazioni dei diritti dei popoli. Quest’ultima la si trova cementata in vecchi criteri, come “autodeterminazione dei popoli” e “intangibilità delle frontiere”, le cui contraddizioni vengono sempre affrontate solo con false innovazioni tipo “condanne” o “guerre umanitarie”. Rimarrebbe una cosa da perseguire, che invece nessuno pare costruire (anche in politica la settorializzazione è ostacolo): dare forma costituzionale, sia per l’Italia sia per l’ONU, al legame logico e sociale che tiene assieme i diritti dei singoli e dei popoli. Finchè sono fuffa, nessuno nemmeno ricorda i tempi in cui ci si sforzava di metterli insieme. E ai furbi resta la ghiotta opzione di approfittarne per giustificare le guerre.

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