In una recente intervista tv (al programma In Onda del 30 ottobre) Massimo D’Alema ha fatto – insieme ad altre importanti ammissioni, anche su propri errori – una rivelatrice affermazione quando, riferendosi ai cambiamenti conosciuti dalla sinistra dopo la fine del Pci, ha con nettezza detto: «In questo processo di cambiamento si è smarrito il senso di un’identità e di una radice storica e questo è stata una perdita di valore. Quando abbiamo detto che i partiti non dovevano essere ideologici, abbiamo sbagliato. I partiti devono essere ideologici». È una importante ammissione a fronte del fatto che è diventato un luogo comune sentire ormai da più parti e da un po’ di tempo ripetere che a intossicare il dibattito politico e a impedire una politica condotta sulla base del sano buon senso e sulla capacità di risolvere i problemi, sia il persistere delle “ideologie”. Sarebbero queste a corrodere il sano tronco della democrazia, a innescare l’intolleranza, a impedire la reciproca comprensione e a sbarrare il passo a una politica razionale, basata possibilmente sul parco pragmatismo del politico navigato, su un andreottiano savoir faire.
E su questo D’Alema non ha torto; sono infatti stati storicamente i cosiddetti “partiti di massa”, nati con l’ingresso delle grandi aggregazioni popolari nella competizione politica dopo l’età d’oro dei sistemi liberali censitari, a farsi portatori di visioni del mondo diverse e concorrenziali, nelle quali si condensavano radicate aspirazioni, che si esprimevano in quelle che sono state chiamate, il più delle volte con disprezzo e svalutazione, “ideologie”. Si è così negli ultimi tempi cercato di svalutare e delegittimare qualsiasi differenziazione basata su delle opzioni generali; in particolare le aggregazioni di solito riconosciute nei concetti di “destra” e “sinistra”. Tale approccio ha poi avuto una sua legittimazione coi governi tecnici o “dei migliori” e con l’idea loro sottesa: che ormai su molti problemi – ivi compresi quelli economici – non ci sia la possibilità di produrre progetti politici divergenti, ma solo scegliere tra opzioni meramente tecniche. La conseguenza è stata, ad esempio, che quando si è discusso di abrogare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori non si è intesa questa misura come un momento di contrapposizione politica tra diversi portatori di interessi e visioni del sociale, ma semplicemente come una questione tecnica alla quale – diceva il presidente della repubblica Napolitano ‒ «è errato reagire con ideologie!» (21 febbraio 2012); o si sentenziava che «in Italia c’è ancora troppa ideologia» (Vasco Errani, 28 febbraio 2012 a Ballarò).
È notevole il fatto che questa visione riduttiva e denigratoria delle ideologie sia stata promossa proprio dalla sinistra – e D’Alema ha ben ragione ad assumersene in parte la responsabilità –, che così ha pensato di diventare “moderna”; e questo è avvenuto mentre nel contempo i conservatori più estremi – specie americani – si si sono via via resi conto di quanto importanti fossero le ideologie; di come su tale piano fosse necessario intervenire, mediante una loro produzione pianificata tramite la creazione e il finanziamento di numerose fondazioni, che hanno rappresentato i think tank della destra neoliberale. Non solo, ma superando un limite interno all’approccio neoliberale col riformarne l’antropologia, si è finito per vedere nelle ideologie uno dei fattori più importanti per spiegare il divenire economico, come sostiene C. North (storico “cliometrico” della New Institutional Economic History Douglass, Nobel per l’economia nel 1993 e uno dei maggiori esponenti, con Robert W. Fogel, del pensiero neoliberale).
In effetti è errata la visione riduttiva e vetero-marxista delle ideologie; esse possono essere considerate, piuttosto, delle visioni generali della società, del suo ordinamento, del modo di regolare i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, di come intendere l’etica privata e pubblica, la famiglia, la società, l’educazione, l’assistenza, la solidarietà, la natura del legame sociale e così via. Tutto ciò può essere ispirato a una generale concezione del mondo millenarista (come ad es. avveniva col comunismo), religiosa (con il cattolicesimo o altre forme di religiosità), o anche laico-razionalista (come pretendeva fare il liberalismo o come ha sostenuto Popper). Le ideologie forniscono in sostanza un “orizzonte di senso” nel quale si concreta un quadro complessivo della società e del suo ordinamento politico nel contesto di una cornice d’insieme che delinea un ordinamento sociale ispirato a ideali e fini di carattere assai generali, come il significato del posto dell’uomo nel mondo e del suo peregrinare su questa terra, con una implicita o esplicita teleologia. In questa duplice veste – descrittiva e normativa – l’ideologia ha una funzione fondante rispetto alle forme di aggregazione partitica nelle quali vengono convogliate le aspirazioni e gli interessi di ampi strati della popolazione di un paese; essa adempie lo scopo di tenere insieme la società umana, che in essa si riconosce e in cui trova il suo luogo naturale, costituendone il “cemento” che la connette, una sua parte organica, che la costituisce in un tutto organizzato e senza la quale essa non potrebbe nemmeno esistere come tale.
Siamo con ciò abbastanza lontani da quella visione tipicamente marxiana per la quale l’ideologia è una forma di mascheramento di reali interessi di classe e quindi ha una funzione di distorsione o di velamento dei veri rapporti sociali, fungendo da ingannevole occultamento che impedisce la reale e autentica percezione dei fatti. Di contro l’ideologia è stata concepita da molti autori contemporanei, non necessariamente marxisti, come quel complesso delle idee, concezioni e visioni del mondo che tengono insieme una società e che danno un senso alla partecipazione dell’uomo a progetti, iniziative e alla sua stessa vita. Lo ha genialmente capito Gramsci quando, nell’intendere in senso laico la religione, ha sottolineato come essa possa essere concepita quale una concezione del mondo e una condotta ad essa conforme; per cui al termine ideologia egli dà appunto «il significato più alto di una concezione del mondo che si manifesta implicitamente nell’arte, nel diritto, nell’attività economica, in tutte le manifestazioni di vita individuali e collettive». Sicché si potrebbe ben sostenere con Terry Eagleton, che «produciamo, disseminiamo e consumiamo ideologie per tutta la nostra vita, ne siamo consapevoli o meno. […] Le ideologie […] ci forniscono una mappa del mondo politico e sociale. Semplicemente non possiamo farne a meno perché non possiamo agire senza dare un senso al mondo in cui abitiamo».
Così intese, le ideologie svolgevano e svolgono un’importante funzione per la tenuta della società. Non solo sono il quadro di riferimento che legittima un ordine sociale, ma permettono anche di canalizzare e regolamentare all’interno delle formazioni che se ne fanno interpreti (partiti, sindacati, organizzazioni sociali, movimenti) anche il dissenso, l’ira e la protesta sociale, l’insoddisfazione per la propria condizione e la speranza di un cambiamento. Inoltre esse hanno una funzione fondamentale per guidare il giudizio che spesso resta smarrito di fronte alla inaffidabilità delle notizie che provengono da mass media, a tutto interessati fuorché a una corretta informazione: nell’incertezza e nella contraddittorietà delle fonti e dei giudizi, nonché per l’impossibilità epistemica di accertarne la correttezza o meno, è l’ideologia a guidarci e a farci scegliere quelle opzioni che sono coerenti con il nostro mondo di valori e quindi a guidare i nostri comportamenti di fronte a scelte cruciali che possono interessare la nostra vita futura (come ad es. accade in caso di elezioni).
Se quanto detto è vero, allora il cancro che corrode le società odierne non è il permanere delle ideologie, ma appunto la loro scomparsa, che ha abbandonato la politica a un pragmatismo senza luce e progetto, senza orizzonte ed etica. Al loro posto è cresciuto il fanatismo, che non è figlio dell’ideologia in quanto tale, ma del fondamentalismo, comunque esso sia inteso: religioso, politico, identitario, culturale. E di questo fanatismo fanno uso, anzi lo eccitano e alimentano, politici spregiudicati senza ideali né ideologia, la cui aggregazione in partiti e movimenti si basa ormai su interessi raso terra, condivisi e sempre cangianti, in relazione alle lobby via via rappresentate, e disposti a giocare sulla pelle della nazione e dei cittadini allo scopo di realizzare i propri interessi di casta. In fondo i “mutamenti di casacca”, il trasformismo che tanto si lamenta, non sono che il frutto di questa assenza di ideologia, di questa mancanza di orizzonti, di una formazione politica inesistente e sradicata da ogni movimento di massa e da ogni forte coinvolgimento in valori e significati. In fondo, tutti coloro che raccomandano la fine delle ideologie (o, peggio, la diagnosticano), non fanno che avallare e farsi paladini di quell’unica ideologia che, come l’aria che respiriamo, si vuole che non sia neanche avvertita come tale, incardinata com’è in quel “così va il mondo”, “questo vogliono i mercati” che viene spacciato per l’ordine naturale delle cose, privo di ideologie.