Inviare armi in Ucraina è (ancora) legittimo?

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L’Italia, come altri paesi europei, ha scelto di prestare aiuto all’Ucraina non solo sul versante delle misure umanitarie e dell’accoglienza dei profughi, ma anche su quello molto più controverso degli armamenti. Prima l’art. 2 del decreto legge n. 14 del 2022 ha previsto «la cessione, a titolo gratuito, di mezzi e materiali di equipaggiamento militari non letali di protezione alle autorità governative dell’Ucraina»; poi l’art. 1, comma 1, del decreto legge n. 16 del 2022 (confluito nel disegno di legge di conversione del primo decreto legge) ha più genericamente disposto «la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina».

Al netto di ogni valutazione circa la natura e la qualità degli armamenti inviati (questione sulla quale sarebbe auspicabile maggior trasparenza), è legittimo trasferire armi al Governo ucraino? Come noto, a gettare qualche ombra sul trasferimento delle armi non sono tanto i limiti che la legislazione vigente pone alla cessione di materiali di armamento (un decreto legge, infatti, può sempre derogare a precedenti atti legislativi), quanto il principio costituzionale nel quale è scolpito il «ripudio» della guerra. È di tutta evidenza che inviare armi in uno scenario bellico significa partecipare, seppur per interposto esercito, al conflitto armato. Il punto è stabilire la natura di quel conflitto: guerra “ripudiata” o conflitto armato tollerato dalla Costituzione?

La genesi dell’art. 11 della nostra Costituzione è nota. In Assemblea costituente ci fu un larghissimo consenso intorno all’idea fondamentale di escludere, nel modo più efficace possibile, la guerra dall’orizzonte costituzionale. È vero che si discusse sul verbo da utilizzare (“condanna” oppure “rinuncia”), ma è altrettanto vero che la discussione riguardò la forma attraverso cui esprimere quel convincimento, non certo la sostanza e cioè il rifiuto della guerra. Alla fine si scelse il termine “ripudia”, sintesi energica – si disse – dei precedenti due termini. Il ripudio della guerra non rappresenta una caratteristica esclusiva della nostra Costituzione. La scelta costituzionale si colloca, infatti, nell’ambito di una tendenza più generale, consolidatasi nel ‘900 e volta a cristallizzare il divieto di fare la guerra in specifiche norme giuridiche (costituzionali e internazionali). Il Novecento non è stato solamente il secolo delle grandi tragedie, ma è anche stato il secolo nel quale si è davvero provato a mettere definitivamente “fuori legge” la guerra. Per questa ragione, l’oggetto ripudiato (la guerra) deve essere inteso in senso ampio, in modo da abbracciare tutte le possibili declinazioni della guerra e scongiurare il rischio che ‒ chiamando la guerra con altre espressioni, oppure aggiungendo al sostantivo guerra un aggettivo che la giustifichi ‒ si eluda il divieto sancito dal testo costituzionale.

L’articolo 11 vieta esplicitamente due fattispecie: la guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli» (dunque, la guerra di aggressione) e la guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (dunque, secondo una celebre definizione, la guerra come continuazione della politica). Come noto, altre disposizioni costituzionali contemplano, invece, l’ipotesi della guerra: l’art. 78 Costituzione stabilisce che le Camere «deliberano» lo stato di guerra; l’art. 87, comma 9, stabilisce che il Presidente della Repubblica «dichiara» lo stato di guerra; l’art. 52, primo comma, definisce la difesa della Patria un «sacro dovere del cittadino». Bisogna peraltro intendersi e chiarire a quale guerra questi articoli si riferiscono. A tal fine, possono aiutare le parole pronunciate, in Assemblea costituente, da Leo Valiani del Partito d’azione: «Noi siamo incondizionatamente […] per la rinuncia alla guerra. Se ci attaccheranno, ci difenderemo, ma noi abbiamo il fermo proposito di non attaccare mai nessun altro popolo, sia esso un popolo retto con ordinamenti liberali o con altri ordinamenti». Da queste parole – pronunciate, tra l’altro, in aperta polemica con ogni imperialismo – traspare chiaramente l’idea di circoscrivere il più possibile lo spazio costituzionale della guerra.

Dunque, ciò che sfugge al divieto costituzionale è solo e soltanto la guerra di resistenza, nella sua duplice forma: a) la legittima difesa individuale e cioè la guerra di resistenza contro un’aggressione al nostro territorio (in questo caso la guerra sarebbe addirittura doverosa); b) la legittima difesa collettiva e cioè il sostegno, anche militare, alla guerra di resistenza altrui (in questo caso la guerra non è più doverosa, bensì costituzionalmente tollerata). L’ipotesi della legittima difesa (individuale e collettiva) è prevista esplicitamente dall’art. 51 della Carta delle nazioni unite che, pur definendola un diritto naturale degli Stati, cerca di ricondurla entro una cornice ben precisa di garanzie (per evitare che una legittima guerra di resistenza si tramuti in un ricorso illegittimo all’uso della forza). Quello abbracciato dalla nostra Costituzione non è, dunque, un pacifismo assoluto. Anche coloro che hanno più intensamente valorizzato la formula di ripudio contenuta nella Costituzione sono comunque giunti a sostenere la legittimità costituzionale della legittima difesa individuale e collettiva. A patto che la guerra di resistenza rimanga tale e non si tramuti in una guerra di aggressione o in una guerra come strumento per la risoluzione di una controversia internazionale. In una guerra esplicitamente vietata dalla Costituzione.

Se mandare armi difensive al governo ucraino per respingere i carri armati russi alle porte di Kiev rappresenta scelta costituzionalmente legittima (in esercizio di una legittima difesa collettiva), continuare a mandare armi anche quando la guerra dovesse concentrarsi – come sembra – nell’Ucraina orientale pone qualche interrogativo in più. Già prima dell’invasione russa del 24 febbraio 2022, la regione era interessata da un conflitto, seppur definito “a bassa intensità”. E già prima dell’invasione russa si era provato, peraltro senza successo, a pacificare quel conflitto con un accordo (il Protocollo di Minsk). Senza ombra di dubbio, il riconoscimento da parte della Russia delle Repubbliche popolari di Doneck e di Lugansk e la successiva invasione militare hanno determinato un salto qualitativo del conflitto. Ma il conflitto e la sottostante controversia internazionale – questo mi sembra un punto forse non trascurabile – c’erano già. Il dubbio allora è che in queste regioni la guerra tenda inevitabilmente a scivolare verso una guerra volta (anche) a risolvere una controversia internazionale che si trascina nel tempo. Una guerra, dunque, «ripudiata» dalla nostra Costituzione e per la quale non sarebbe (più) consentito inviare armi. Senza peraltro dimenticare che dai riferimenti contenuti nell’art. 11 Costituzione alla «pace» e alla «giustizia tra le Nazioni» discende, in capo all’Italia, l’obbligo di intraprendere ogni sforzo possibile per trovare soluzioni alternative alla guerra. E nel momento in cui la legittima difesa in senso stretto dovesse esaurirsi, continuare a inviare armi potrebbe rivelarsi più di ostacolo che di aiuto alla soluzione pacifica del conflitto.

Dinanzi alla tragedia della guerra, queste distinzioni potrebbero, senza dubbio, apparire questioni di lana caprina. E distinguere in concreto quando una legittima difesa si tramuti in una guerra strumentale alla risoluzione di una controversia internazionale è tutt’altro che agevole. Ma è proprio compito del diritto (e dei giuristi) tracciare confini e distinguere le situazioni. Anche dinanzi a fenomeni dirompenti come la guerra che – almeno a prima vista – non si prestano a qualificazioni intermedie.

Gli autori

Matteo Losana

Matteo Losana è professore associato di Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. È autore di saggi e monografie in tema di fonti del diritto e diritti costituzionalmente garantiti.

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One Comment on “Inviare armi in Ucraina è (ancora) legittimo?”

  1. La citazione di Valiani è eloquente, del fatto che i Costituenti non avessero in sostanza neanche contemplata (e perciò nè vietata nè prevista) l’eventualità di un supporto armato alla resistenza d’altri popoli. Un’omissione in verità ben orchestrata, per poter intrufolare la più ampia libertà d’azione per la NATO. Le lane caprine sono qui, dall’origine: laddove forse costoro non avevano scelta… Nel caso odierno, come sono ormai solito, invito a rifuggire dai sillogismi. Ad esempio, non si sia per scontata l’equivalenza tra la “legittima difesa collettiva” e “il sostegno, anche militare, alla guerra di resistenza altrui”. La distinzione è cruciale. Infatti, chi tra i popoli resistenti è da armare e chi no? Se restassimo a quella errata equivalenza, la scelta spetterebbe alla collettività di nazioni di cui è lecita la difesa armata. Ma, prima che l’ONU, è palese che si tratterebbe della NATO…

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