«Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi». Sono parole di Karl Marx, risalenti al 1850, due anni dopo i moti del 1848. Una previsione e, al contempo, una constatazione: le crisi sono sempre occasioni propizie per rimettere in discussione l’esistente. Guai a sciuparle, quindi. «Never let a good crisis go to waste» («Non lasciare mai che una buona crisi vada sprecata»), avrebbe ammonito sagacemente molti decenni dopo Winston Churchill.
Dato per assodato, quindi, che tutte le crisi possono rivelarsi utili al cambiamento, ma che alcune sono “migliori” di altre, non c’è dubbio che una crisi pandemica sia il meglio che possa capitare al fine di una trasformazione più o meno significativa dello stato presente delle cose. Ma il “meglio” per chi? Dipende, come sempre, dai rapporti di forza. Restiamo al caso italiano. Oggi, le classi popolari, il nuovo proletariato, hanno la forza di imporre una diversa agenda di governo, per uscire dalla crisi con più diritti sociali, più lavoro libero, più sanità pubblica? In teoria sì, non fosse altro che per una questione di numeri. Nondimeno, è chi sta sopra, una minoranza, che anche questa volta sta approfittando dell’emergenza per regolare i conti con chi sta sotto, la maggioranza della popolazione. È il momento di chiudere il cerchio: la pandemia è un’occasione irripetibile, consente di rimodellare definitivamente la società secondo uno schema neoliberista con la minore resistenza di sempre delle classi subalterne. La paura della malattia vince sulla coscienza di classe. O di quello che ne rimane. Il momento della spallata è adesso, pensano. A meno che…
L’errore più grave che si possa commettere di fronte al “Governo di tutti” guidato dal banchiere Draghi è quello di considerarlo un Governo conservatore qualsiasi, come altri ce ne sono stati nel passato. No: questo Governo non è un parente del Governo Monti o qualcosa che assomigli ai governi tecnici di un passato ancora più lontano. A Draghi non è stata messa in mano una forbice per tagliare la spesa pubblica e far quadrare i conti. Almeno per adesso. Niente spread e mercati da tranquillizzare, insomma (spendiamo e incassiamo la promozione di Fitch). Questa volta le “riforme”, quelle che devono durare a lungo, si fanno col portafoglio pieno. Pieno anche di denari presi a prestito. “Debito buono”. Gli stessi “soldi dell’Europa” sono per una parte debito da ripagare, ma non è un problema. Non è come dieci anni fa, quando si potevano affamare i popoli chiudendo i rubinetti del credito o aprendolo a condizioni salatissime. Cosa è cambiato? Beh, semplicemente che la pandemia ha minacciato l’esistenza stessa del sistema. Una crisi inedita, niente a che vedere con i crack finanziari o le più classiche crisi capitalistiche di sovrapproduzione, su cui sono stati versati fiumi di inchiostro da un paio di secoli a questa parte. Chiusure, confinamento, rottura delle catene globali del valore e contrazione del commercio internazionale, una delle più nere recessioni economiche dal 1870. Potenza evocativa della storia. 150 anni fa, quella crisi, di ben altra natura certamente, portò alla Comune di Parigi. Marx non aveva sbagliato vent’anni prima.
Ma torniamo all’oggi. Ci vuole poco a capire perché la parola “resilienza” ha preso il posto della parola “rigore”. Resistere all’urto della pandemia, salvare il sistema, accentuarne il profilo pro-business, mercatista, consumistico. È a questo che mirano le “riforme di contesto” previste nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Riforme orizzontali (trasversali a tutte le Missioni del Piano), riforme abilitanti (funzionali a garantire l’attuazione del Piano) e riforme settoriali (nuove norme volte a semplificare i regimi regolatori e procedurali in tutti gli ambiti cui gli interventi del Piano afferiscono). In tutto, ben 63 “riforme”. Un programma di medio periodo per cambiare il volto del Paese. «Il PNRR ‒ scrive Draghi nella premessa al documento ‒ è parte di una più ampia e ambiziosa strategia per l’ammodernamento del Paese». Naturalmente, per “Paese più moderno” si intende un Paese con bassi livelli di regolazione del mercato di beni e servizi e di quello del lavoro, dove tutto, anche un “bene di tutti” per antonomasia come l’acqua, dev’essere sussunto al mercato e alle sue leggi. È investendo nel mercato che si creano le condizioni del benessere di tutti. Lo Stato deve favorire la competizione tra le imprese e tra gli individui, guai a pensare che debba intervenire per redistribuire verso il basso la ricchezza. Troppe disuguaglianze? Pazienza, ora bisogna abbassare le tasse al ceto medio e alle imprese. Non è solo una questione di risparmi. È anche un segnale che si dà al sistema. Oltre che ai mercati. “Meno tasse” è un’iniezione di fiducia per chi dovrà mettersi in gioco, correre, competere, sgomitare per la sopravvivenza. Che poi, “per” la povertà, qualcosa ci sarà comunque. Pure i poveri consumano, anche loro sono importanti per il mercato. L’importante è che rimangano tali, vale a dire poveri, in stato di bisogno permanente, sì da non compromettere il “prezzo di equilibrio” della loro forza-lavoro, fisica o intellettuale che sia.
C’è una grande ipocrisia, nondimeno, in questa narrazione. Il Bengodi dei mercati concorrenziali e delle imprese “resilienti” non vede i capitalisti aprire il portafoglio, anticipare e investire capitale proprio per raccogliere profitti domani. Non in tutti i casi. Il processo rimane quello che Marx aveva sintetizzato nella formula D-M-D’: investimento di denaro per avere più denaro. Peccato però che D sono soldi pubblici (anche debito pagato da tutti), mentre D’ sono solo profitti privati. Non solo. Il rischio d’impresa viene scaricato sulla collettività (vi rientra anche il debito pubblico), senza che per l’impresa ci siano obblighi aggiuntivi verso i lavoratori. Nessuna condizionalità, insomma, per quanto riguarda i livelli occupazionali e salariali, la qualità dei contratti e il contrasto al precariato. Soldi pubblici, profitti privati e per pochi.
Tutto da buttare quello che il PNRR prevede? No, ovviamente. Anche sotto i peggiori regimi sono state fate “cose buone”. Ma il punto non è questo. L’opposizione al Governo Draghi o è l’opposizione a un modello di società o non è. Anche la legge di bilancio in corso d’approvazione è un tassello di un programma più organico e di lungo periodo. Prendiamo il caso della riforma dell’Irpef e il capitolo del “taglio delle tasse”. Il problema non è se un miliardo in più o in meno viene spalmato su una platea più o meno vasta di contribuenti. Se c’è più cuneo fiscale o più risparmio sull’imposta. È l’intera impostazione dell’intervento che va rigettata. In questa fase le vere urgenze sono il lavoro, la precarietà, i giovani, la crescita delle diseguaglianze, la povertà che avanza. Non è urgente né moralmente accettabile che si taglino le tasse per qualche centinaia di euro all’anno a chi può pagarle, perché un lavoro stabile ce l’ha. Che senso ha far risparmiare 500 euro a chi ha un reddito di 70 mila euro annui? E che dire delle imprese che, mentre prendono soldi pubblici, si vedono esentate anche dal pagamento dell’Irap, l’imposta regionale che serve a finanziare la sanità pubblica (nel disegno di legge delega per la riforma fiscale si prevede la sua graduale abolizione)? È un’idea di società. Non è la società “keynesiana” del dopoguerra né quella in cui lo Stato si limita al ruolo di “guardiano notturno”. È perfino una versione aggiornata della concezione neoliberista della società. Un “keynesismo del e per il capitale”, con il governo centrale nella veste, ora sfacciatamente, di “comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese”.
Cosa servirebbe? In queste condizioni, al punto in cui siamo arrivati, un fisco ridistributivo, un piano di assunzioni pubbliche in ambiti non immediatamente riconducibili al mercato dei beni e dei servizi, nuove norme per la mitigazione del fenomeno della precarietà lavorativa, il rilancio dell’impresa statale in alcuni settori strategici, sanità pubblica e gratuita, un vero reddito di base universale e incondizionato, sarebbero un abbozzo di socialismo. Si scherza, ma non troppo. Vogliamo ricordare cosa è stato, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, il modello sociale europeo del dopoguerra? Purtroppo non si intravedono al momento possibilità concrete di ribaltare la folle agenda di questo Governo. A meno che non si comprenda che 212 miliardi e 63 “riforme di contesto” sono un piano strategico di riorganizzazione della società e dell’economia e che opporsi a singole misure dello stesso Piano o della legge di bilancio è come guardare il dito quando il saggio indica la luna. Vale anche per lo sciopero indetto da Cgil e Uil per il 16 dicembre. Peraltro, non c’era bisogno di aspettare la legge di bilancio per capire quale fosse la direzione di marcia di Draghi e del suo esecutivo. Era già tutto scritto nel PNRR. Meglio tardi che mai, comunque. Ma ora serve un salto di qualità. È un intero disegno di società che deve finire al centro delle lotte.
Fotografia di Colin Lloyd, da Unsplash
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