Il complesso rapporto tra democrazia ed emergenza costituisce, fin dall’antichità, uno dei temi più appassionanti e ricorrenti nella storia della filosofia politica e degli studi giuridici. La diffusione in breve tempo del virus SARS-CoV-2 e la conseguente pandemia globale, rappresentano in questo senso un possibile spartiacque nella vasta letteratura sull’argomento, costringendoci a riflettere, ancora una volta, sull’intricata – e forse inevitabile – relazione di convivenza tra una condizione straordinaria di emergenza e la normalità giuridica che caratterizza i sistemi democratici.
All’iniziale emergenza sanitaria hanno fatto seguito fin da subito due ulteriori crisi: da un lato l’emergenza sociale, legata ai molteplici effetti generati della pandemia nelle forme di convivenza, nei rapporti sociali e nel godimento dei diritti fondamentali come garanzia e tutela della vita; dall’altro, l’emergenza economica, frutto dei lunghi periodi di chiusura e delle incertezze sulle riaperture, che hanno influito in maniera ancora più radicale sulle diseguaglianze sostanziali, accrescendo il distacco tra la fascia della popolazione più ricca e quella più povera. Queste tre dimensioni – sanitaria, sociale ed economica – costituiscono ad oggi le principali priorità che ogni sistema politico è chiamato ad affrontare, attraverso l’utilizzo di mezzi e strumenti differenti. All’interno del suo discorso tenuto il 29 gennaio al termine delle consultazioni per la formazione di un nuovo governo, lo stesso Presidente della Repubblica ha sottolineato come il nostro Paese stia affrontando nel medesimo tempo tre diverse emergenze – presentate nel medesimo ordine –, da fronteggiare «soltanto attraverso l’utilizzo, rapido ed efficace, delle grandi risorse predisposte dall’Unione Europea», nonché di «immediati provvedimenti di governo».
Indubbiamente, le tre situazioni di emergenza sopra descritte rappresentano, come recita l’art. 77 della Costituzione, «casi straordinari di necessità e di urgenza», tali per cui l’intervento dell’organo di governo risulta cruciale e inevitabile per tentare di prevenire e arginare le catastrofiche conseguenze, fin da ora percepibili, sul piano sanitario, sociale ed economico. D’altra parte, è altrettanto vero che il disperato ricorso alla nozione di emergenza costituisce tutt’altro che una novità o un lascito della pandemia, bensì designa un termine assai ricorrente nel lessico politico moderno, nonché un diffuso modello di governo e una conseguente fonte di legittimazione del potere decisionale, che da qualche decennio contraddistingue gran parte delle democrazie occidentali. Volgendo lo sguardo al passato, è possibile osservare come il termine “emergenza”, strettamente connesso a quello di “crisi”, sia stato abbinato nella storia recente del nostro Paese a molteplici fenomeni, anche molto differenti tra loro: pensiamo alla cosiddetta «emergenza immigrazione» – talvolta definita in maniera del tutto errata come «invasione» –, o ancora all’«emergenza sicurezza», locuzione largamente diffusa a partire dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, poi consolidata negli anni a fronte delle terribili stragi consumate. Ebbene, questo scenario ci suggerisce alcune possibili e interessati riflessioni sul rapporto democrazia-emergenza. Anzitutto, il costante richiamo allo stato di emergenza non registra solamente una certa povertà linguistica derivante dal tentare di ridurre complessi fenomeni umani, talvolta strutturali come nel caso dell’immigrazione, a semplici eventi passeggeri, bensì preclude una precisa retorica politica, costruita nel tempo attraverso un ampio armamentario di tecniche, strumenti e discorsi a cui richiamarsi per affrontare una situazione di necessità, lontana dalla normalità giuridica. Sono queste le premesse che hanno portato Irene Bono a parlare dell’emergenza come di un vero e proprio «stile di governo» ormai ben diffuso nelle nostre democrazie, di cui è possibile osservare alcune caratteristiche tipiche.
In primo luogo, la retorica politica emergenziale sembra affondare le proprie radici in quelle che vengono considerate due debolezze comuni a molte democrazie rappresentative: l’instabilità di governo e la lentezza nell’assumere decisioni. Fin dalla metà degli anni Settanta, la questione dell’ingovernabilità emerge come problema strutturale nelle democrazie europee, giudicate incapaci di rispondere in maniera efficiente alle numerose istanze provenienti dalla società civile. Le continue trasformazioni economiche e sociali avrebbero inoltre amplificato ulteriormente il problema, registrando una certa difficoltà nei sistemi politici occidentali inerente la formulazione di decisioni e politiche in tempi rapidi. In un mondo iperconnesso, scandito da ritmi sociali e lavorativi ai limiti dell’accettazione, in cui il culto dell’innovazione e la cieca corsa al progresso costituiscono i principi guida di ogni capitalismo, anche la politica, e in questo caso la democrazia, sembra necessariamente costretta a omologarsi a questo paradigma. A uscirne stravolto è il processo che accompagna lo svolgimento del «gioco democratico», ora ridisegnato in chiave maggiormente dinamica e veloce per giungere in poco tempo alla sua fase finale, quella della decisione, sacrificando sull’altare della rapidità il principio democratico per eccellenza, la deliberazione. Sul versante giuridico, tale tendenza si traduce immediatamente in uno sproporzionato ricorso alla decretazione d’urgenza, che supera nettamente la legislazione con fonte parlamentare. Il massiccio utilizzo dei decreti-legge, previsti nel nostro ordinamento dal già citato art. 77 della Costituzione, non costituisce solamente una prova empirica rispetto al processo di fluidificazione della nozione di emergenza, che in molti frangenti va ben oltre i «casi straordinari di necessità e di urgenza» nominati dalla carta costituzionale, ma si inserisce in maniera più ampia in un quadro di rafforzamento del potere decisionale in capo al governo.
In secondo luogo, lo «stile di governo» emergenziale si accompagnerebbe dunque a un processo di verticalizzazione e concentrazione del potere. La «presidenzializzazione dei parlamentarismi» e il maggior peso assunto dagli organi di governo, incarnati nella figura del Primo Ministro, sembrerebbero infatti elementi centrali all’interno del processo di rinnovamento democratico, intrapreso come possibile risposta alle debolezze strutturali tipiche dei sistemi politici occidentali. Detto in altre parole, solamente un governo forte, stabile, dotato di tutti i poteri necessari, sorretto infine da un soggetto capace, di «alto profilo» e, perché no carismatico, costituirebbe una soluzione sicura e affidabile per affrontare una situazione di emergenza, sia essa sanitaria, sociale o economica. In questo senso, la scelta di affidarsi, in casi di emergenza, a un soggetto unico, annoverato nella cerchia dei “migliori”, che gode di un ottimo prestigio sociale, sembrerebbe avere radici piuttosto antiche. Pensiamo alla figura del dittatore romano in epoca repubblicana: nominato dai consoli su proposta del Senato, il dittatore riceveva l’incarico, per un periodo di tempo limitato di sei mesi, di risolvere una situazione di emergenza spesso legata a uno stato di guerra, utilizzando tutti gli strumenti necessari utili alla causa. La stessa figura viene richiamata, nel quarto libro del Contratto sociale, dal democratico Rousseau, il quale sottolinea a sua volta come il dittatore della Roma repubblicana avesse di fatto il potere di far tacere la legge e non di crearne di nuova. L’esempio risulta poco calzante se calato nella dimensione attuale e in un contesto di democrazia rappresentativa. Nonostante ciò, credo sia interessante notare come nella nozione di emergenza sia ben radicata una sottotrama autocratica, verticalizzante, discendente; un movimento in questo senso opposto alla dinamica tipicamente ascendente delle democrazie, costruite a partire dal basso.
Stabilità, rapidità, efficienza, necessità, urgenza. Sono queste alcune delle parole chiave che ruotano intorno a quello che è stato definito lo «stile di governo» emergenziale; termini che inevitabilmente ritornano ancora oggi, quando l’intero pianeta si trova costretto a dover affrontare tre (o più) emergenze cruciali da cui dipende in buona parte il futuro di molte persone, soprattutto quelle più fragili. Il buon auspicio rimane quello di imparare dal passato per riuscire ad affrontare meglio il presente, partendo innanzitutto da un’analisi approfondita sugli effetti scaturiti dal continuo ricorso alla nozione di emergenza in termini di uguaglianza politica, nonché attraverso un’attenta riflessione sul tema della limitazione dei diritti fondamentali, come conseguenza forse inevitabile in una situazione di emergenza.
La speranza rimane, infine, quella per cui tutto ciò non si traduca in quella che Patricia Mindus ha definito una «nostalgia per Cincinnato».