Pubblico, tra falsi e veri onori

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Parmenide di Elea, grande filosofo e legislatore, definiva uomini “dalle due teste” tutti coloro che non sapevano risolversi a seguire né compiutamente il sentiero del Logos (sapere) né quello della Doxa (opinione) e oscillavano continuamente, producendo discorsi solo verosimili. È la netta impressione che si ricava leggendo l’articolo di Boeri e Perotti (L’onore degli statali, la Repubblica, 24 novembre 2020) sin dalla prima scena, là dove in apertura si derubrica lo sciopero del settore pubblico a una questione di vile denaro. Sarebbe bastato sfogliare i volantini sindacali, dunque il documento più di parte in circolazione, per scoprire che il rinnovo contrattuale (i famigerati aumenti) nella piattaforma rivendicativa è ben ultimo, preceduto in ordine di priorità, oltre che dal tema di stringente attualità della sicurezza, dalla richiesta di un piano straordinario di assunzioni, per evitare di trasformare in eroi semplici medici e infermieri, per esempio, e dal contestuale riassorbimento di quella autentica piaga rappresentata dalla produzione su larga scala di lavoro precario (nella Pubblica Amministrazione sono circa 170mila i lavoratori in tale condizione).

Ovviamente nulla può l’evidenza dei fatti se occorre corrispondere a una tesi precostituita, come pare sia l’intento dell’articolo richiamato. Questa tesi, che ben si attaglia al clima plumbeo ed espiativo emergente, è quella di trascrivere qualsivoglia legittima rivendicazione in termini di vizi capitali, per cui la richiesta di rinnovo contrattuale si risolve in gesto di smisurata avidità, sia pure non in esplicito denunciato (l’avarizia-avidità, accanto alla superbia e all’invida, è annoverato nella dottrina morale cattolica tra i peccati più gravi).

L’intonazione moralistica e penitenziale permea di sé per intero lo scritto, là dove interpreta il confronto tra lavoro pubblico e privato secondo il canovaccio del senso di colpa che dovrebbe assalire i lavoratori pubblici, al pensiero che «più di 6 milioni e mezzo di dipendenti privati sono finiti in cassa integrazione», senza badare a particolari distinzioni di sorta come la circostanza che i dipendenti pubblici hanno continuato a lavorare, garantendo una continuità di servizi erogati come la stessa Cassa integrazione, e dunque non possono essere assimilati sic et simpliciter ai lavoratori a zero ore. Tranne non ci sia il retropensiero, che qua e là pure affiora, che il lavoro agile è in buona sostanza un non lavoro («Nel pubblico impiego c’è chi ha smesso completamente di lavorare, eppure ha continuato a percepire il proprio stipendio pieno; le scuole italiane, al contrario che nel resto d’Europa, sono state chiuse da marzo»). E soprattutto i dipendenti dei servizi pubblici non possono essere responsabili, termine da preferire a quello di colpa, del proliferare del lavoro precario che è in capo a un preciso paradigma economico, quello neoliberista, che i due autori non convocano mai.

Quando si scrive per tesi presupposte, i dati particolari e parziali è gioco forza che vengano piegati a questo disegno. Così si conclude troppo frettolosamente che la giustizia si è fermata perché «il presidente del Tribunale di Milano, Roberto Bichi, non ha esitato a utilizzare il termine “finzione” con riferimento al “lavoro agile” svolto dall’85% del personale amministrativo del tribunale». Con analoga disinvoltura metodologica potremmo richiamare il presidente del Tribunale di Bologna che, invece, ha detto in un incontro che con lo Smart working la produttività è aumentata del 16%, deducendo che la giustizia è addirittura migliorata. Ma non può funzionare così. Anzi si sa che tradizionalmente i tribunali sono tra i luoghi più restii alla digitalizzazione, e dove i lavoratori da tempo stanno conducendo con i sindacati una battaglia per portare più innovazione, perché lo scopo è di lavorare meglio e non di non lavorare.

Ma la prova che il pezzo contenga un intento salvifico, certo corredato e arricchito di numeri e percentuali, è dato dal fatto che si offra una via di redenzione possibile ai dipendenti pubblici e ai relativi vertici sindacali, i quali «dovrebbero chiedere di devolvere le risorse stanziate per il rinnovo dei contratti alle assunzioni necessarie per sostituire chi ha lasciato per quota 100 (una misura che ha beneficiato soprattutto il pubblico impiego)». Si nega di fatto il diritto al contratto per consentire quello al lavoro, in una logica perversa a somma zero. Si consenta di dubitare che sia questa la strada per mantenere o ridare onore agli statali e dignità e centralità allo Stato, come non lo si fa nei confronti della scuola quando le si procura carta igienica, gessetti, pc o volontari per ritinteggiare le aule.

Ora, ogni scrittura, sia pur quella più sorvegliata, presenta l’inconveniente di fare emergere anche ciò che non si vorrebbe. L’articolo in parola non sfugge a questa regola. Tutta l’impalcatura costruita con cura rischia di infrangersi su di una sentenza secca che poco ha di coesivo, come contraddittoriamente rivendicato: «Ragioni di coesione sociale imporrebbero di estendere la cassa integrazione ai dipendenti pubblici, pagando meno chi rifiuta di seguire corsi di formazione che lo mettano in condizione di essere rapidamente operativo anche a distanza». Si tratta di una singolare contraddizione semantica o “dialettica” tra forma e contenuto, tra ciò che la proposizione propriamente dice (cassa integrazione per tutti) e ciò che essa pretende di dire (coesione sociale per tutti) che manda in frantumi il castello di sabbia in precedenza allestito. Certo il livello di alfabetizzazione informatica è oggettivamente basso ma anche qui non si tiene conto della dimensione soggettiva, dell’età media superiore ai 50 anni, tra le più alte in Europa (secondo l’Ocse). Punto questo ben presente ai «vertici sindacati», che attraverso la segretaria generale FP CGIL Serena Sorrentino, hanno ribadito che «se fai il piano per la digitalizzazione, ma poi l’età media è 57 anni, non vai da nessuna parte […]. Nei prossimi due anni usciranno 500mila persone della PA, e si può approfittarne, dando una prospettiva occupazionale ai giovani e innovando la PA».

È venuto il tempo di chiedersi se siamo in preda a una sorta di reincantamento collettivo che coinvolge pezzi di classe dirigente (il che potrebbe anche essere in linea di principio, vista la portata della crisi) o se, più probabilmente, questo racconto sia funzionale al mantenimento dello stato di cose esistente, che il Covid minaccia involontariamente di sovvertire.

In realtà, il modello che si intende difendere strenuamente è quello deflattivo, secondo il quale il lavoro in generale e quello pubblico in particolare non è la soluzione ma il problema. È inteso come un costo da contenere, per cui è sempre e solo concepibile, in uno schema di vasi comunicanti, un travaso di risorse e diritti, che pure hanno un costo, tra l’alto e il basso. Ne consegue che chi è in cima per diritti, tutele e reddito deve fare da donatore e non da traino per chi sta in basso, in modo da non innescare una dinamica ascensionale incontrollata dei salari. In un universo così concepito, ogni rivendicazione di aumenti, incremento contrattuale o risparmio fiscale che sia, è l’equivalente del drappo rosso mostrato nell’arena a un toro.

Si obietterà: e i consumi chi li sostiene? Essendo noi come Paese, e neppure tutto ma solo la parte più produttiva, un pezzo dell’economia tedesca, abbiamo ereditato la medesima vocazione mercantilista per cui il mercato dei consumi interni conta il giusto, perché la grande partita si gioca sulle esportazioni e la conquista di sempre nuovi mercati (e chissà pianeti, in prospettiva)… Peccato solo che la Germania possa contare sull’enorme valore aggiunto dei beni e servizi prodotti, mentre noi, per la mancanza cronica di investimenti in innovazione e ricerca, sul lavoro sempre più povero. Sarebbe il caso di affrontare seriamente il tema di che modello sociale ed economico, come sistema-paese, vogliamo.

La chiusura del pezzo assume tutto il sapore di un espediente retorico: «Basterebbe che i sindacati smettessero di avvilire quei dipendenti pubblici che in questi mesi hanno dato l’anima per fare il loro lavoro, che hanno rischiato la vita nelle corsie degli ospedali, che hanno insegnato a pieno ritmo anche in condizioni molto difficili, o che hanno passato le notti insonni per cercare di pagare rapidamente la cassa integrazione nonostante leggi mal scritte», per separare ancora una volta il poco grano buono dalla tanta gramigna cattiva e più concretamente tutta la base dalla loro rappresentanza, continuando in un’opera incessante di demolizione dei corpi sociali intermedi. Così i soggetti volenterosi di cui parla, sia pur reali e concretissimi, nel montaggio dell’articolo assurgono al ruolo di meri feticci concettuali da contrappore nella loro purezza e plasticità alla massa dei nullafacenti, innescando in chi legge una furibonda, insensata competizione all’identificazione mimetica.

Non è più il tempo di riproporre vecchie ricette. Il tempo della pandemia con le sue urgenze epocali richiede ben altra tempra e soluzioni eretiche e soprattutto contro-intuitive, perché come ci ricorda Einstein, che di salti di paradigmi se ne intendeva: «Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo».

Gli autori

Salvatore Bianco

Salvatore Bianco, già insegnante di storia e filosofia e poi funzionario presso un ministero, attualmente collabora con la CGIL di Bologna.

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