Nel dialogo intitolato Il politico, Platone inventa una scienza: la chiama metretica, la scienza della giusta misura, delle dimensioni adeguate delle cose, e delle proporzioni corrette, sensate. Non è una scienza esatta, non dà risultati di precisione perentoria. Ma è pur sempre una scienza: una forma di sapere, di conoscenza, guidata dalla ragione, dal ragionamento. Le dimensioni delle cose non sono dominio irrazionale del caso, o del capriccio, dell’arbitrio. Le dimensioni di una cosa dipendono dalla sua natura, sono razionalmente correlate alla natura e alle funzioni della cosa di cui si tratta, appunto, di stabilire le dimensioni. Non possono e non devono essere determinate, o modificate, da cause estrinseche alla natura e alla funzione della cosa che di volta in volta stiamo considerando.
Cedo subito alla tentazione di una prolessi, di un’anticipazione. Le dimensioni delle Camere, degli organi della rappresentanza politica, non possono e non devono essere determinate così, direttamente, senz’altro, dalla «volontà di tagliare la spesa pubblica». Chiedo: per tagliare la spesa pubblica, riduci la cosa pubblica? Riduci la res publica, la repubblica? I suoi organi? Ebbene: ha senso (ammesso e non concesso che ce l’abbia) solo se li ritieni superflui, o eccessivi, questi organi, se giudichi che non valgano la spesa. Ma allora devi dirmi perché, secondo te, non valgono la spesa, e non semplicemente limitarti a dirmi che li tagli per risparmiare. E devi essere convincente, deve essere un buon perché, una buona ragione, e non una sragione.
Torno a Platone. Lo spunto per inventare la scienza della giusta misura gli è venuto, nel Politico, dalla riflessione sul problema della lunghezza dei discorsi. Non bisogna fare discorsi troppo lunghi. E neanche troppo brevi, s’intende. Ora: troppo lunghi, o troppo brevi, in che senso? Qual è il criterio? Lunghi o brevi rispetto a che cosa? Chiara la risposta: rispetto alla funzione del discorso, rispetto allo scopo di raggiungere la chiarezza e l’efficacia nel trattare un argomento, esaminare una questione, esporre una tesi, difendere una posizione. Senza «perdere il filo». Senza smarrire l’obiettivo. Ma al contempo senza scorciatoie, senza eludere le difficoltà, aggirare gli ostacoli, mutilare una questione complessa per farla surrettiziamente apparire semplice. In stile platonico, cercherò qui di seguito di offrire qualche elemento di chiarezza su quello che a me pare il nodo nevralgico della questione posta a referendum: la relazione tra le funzioni e le dimensioni del Parlamento; anzi, degli organi rappresentativi. Un genuino problema di metretica.
Le dimensioni del Parlamento, degli organi rappresentativi, delle Camere sono da porsi in relazione alle loro funzioni. Ma quali sono le funzioni del Parlamento? Sono due: rappresentare e deliberare. Le due funzioni sono complementari, indisgiungibili e strettamente correlate: si potrebbe dire che il Parlamento rappresenta deliberando e delibera rappresentando.
Anzitutto stabiliamo: «rappresentare» in che senso, rappresentare che cosa? Il Parlamento rappresenta la collettività, non certo in tutte le sue caratteristiche sociologiche, ma nella pluralità e varietà degli orientamenti politici in essa presenti; ne rispecchia, ne riproduce, il pluralismo politico ‒ e se vuol essere democratico, lo fa senza esclusioni e nelle rispettive proporzioni, altrimenti viola il principio di eguaglianza. «Rappresenta» anche nel senso teatrale che mette in scena, in pubblico, e in azione e interazione tra loro, le varie anime della collettività, le varie correnti politiche. E «deliberare» in che senso? Conveniamo che deliberare significa discutere per decidere, discutere prima di decidere, prima di votare: discutere proposte di decisioni vincolanti per tutti. La discussione, la deliberazione, diceva Bobbio, è la quintessenza della democrazia, antica, moderna e futura. La democrazia non è — «democrazia» non significa — «potere della maggioranza», non significa aggregazione delle preferenze per stabilire una maggioranza e assegnarle (a lei o peggio al suo «capo») tutto il potere di decisione: questa è autocrazia elettiva, è tirannia della maggioranza. Per questo piace tanto a tiranni e tirannelli di varia taglia e ripugnanza. In questo senso, un organo rappresentativo, ad esempio la Camera dei deputati, «rappresenta» la collettività deliberando, nell’atto di deliberare: quando i suoi componenti discutono sulle decisioni da prendere confrontando tutte le tesi e tutti i punti di vista. Ovvero, reciprocamente, l’organo rappresentativo delibera, discute sulle decisioni da prendere, rappresentando, nell’atto di rappresentare: quando i suoi componenti «rappresentano» nella pubblica discussione parlamentare le opinioni dei cittadini che li hanno eletti (a cui hanno chiesto il consenso nelle campagne elettorali, in base ad un programma), le espongono, le fanno valere e contare nelle discussioni e nelle votazioni.
Per dirlo in estrema sintesi, proviamo a tenere insieme le tre principali dimensioni di significato del verbo «rappresentare», ossia «stare al posto di», «agire in nome di» e «rispecchiare»; e teniamo fermo che «deliberare» significa discutere per decidere. Possiamo dunque dire che il Parlamento, o meglio ciascun organo rappresentativo, sta al posto della collettività, agisce in nome, per conto e in vece della collettività nella discussione e decisione delle leggi, ed è legittimato a farlo proprio perché (o meglio, se e nella misura in cui) ne riproduce, ne rispecchia l’articolazione politica, le varie anime politiche, nelle rispettive proporzioni: il Parlamento è il modello-modellino politico della collettività. Il Parlamento è la collettività deliberante, resa in grado di essere deliberante. Da sé, una collettività vasta non è in grado di esserlo. In sessanta milioni di individui non si può veramente discutere, deliberare. La discussione sul web non consente e non garantisce il confronto equo ed equilibrato tra tutte le tesi e i punti di vista, e peraltro nessun individuo pur perennemente connesso in rete sarebbe capace di assimilare e metabolizzare tutti i pareri, su tutte le questioni, in vista di tutte le decisioni da prendersi sui problemi pubblici. In sessanta milioni no, ma in seicento persone sì, si può e si deve discutere, deliberare, decidere. Insomma: proprio al fine di svolgere la funzione di deliberare e decidere per la collettività — al suo posto, in suo nome conto e vece — il Parlamento «rappresenta», riproduce, rispecchia, la collettività in nuce, in sedicesimo.
Ma questo è il nostro punto: quanto in nuce, quanto in sedicesimo? Abbiamo un criterio per stabilire qual è la giusta misura della rappresentanza? Non voglio dire un criterio così efficace da darci un responso numerico esatto e perentorio; ma sì un criterio che permetta di orientarci nel giudicare se il numero dei rappresentanti, la dimensione dell’organo rappresentativo sia in eccesso o in difetto, o se invece sia più o meno adeguata rispetto alla funzione di rappresentare, di sostituirsi alla collettività nelle deliberazioni e decisioni collettive. Ce l’abbiamo un simile criterio «metretico»?
Partiamo da una constatazione empirica, un po’ grossolana. Nella maggior parte dei Paesi che ha senso comparare tra loro ‒ stati rappresentativi a poteri divisi, con dimensioni geografiche e demografiche non troppo dissimili ‒, i numeri della rappresentanza si assomigliano. Grosso modo, il valore del rapporto intorno a cui si oscilla è quello di un eletto ogni centomila cittadini; un po’ di più o un po’ di meno, ma non di molto. L’assemblea costituente italiana votò nel 1947 per un valore che allora risultava leggermente più alto. Insomma, guardando alla sostanza della questione, le proporzioni sembrano sensate. Ma allora, qualcuno potrebbe dire, che problema c’è con la nostra riforma, con il taglio dei parlamentari proposto dalla nuova legge costituzionale? Siamo oggi in Italia (grosso modo) sessanta milioni, riducendo a seicento i membri del Parlamento ci attestiamo proprio intorno a quella misura che è apparsa sensata per molti soggetti politici comparabili con noi.
Eh no, questa è una scorrettezza. Un errore. È scorretto, e fuorviante, affrontare il problema della riduzione dei parlamentari e delle sue conseguenze considerando il Parlamento italiano nel suo complesso, e dunque guardando alla riduzione dei suoi componenti totali da 945 a 600, e non invece considerando ciascuna delle Camere, l’una dall’altra autonoma e indipendente come collegio deliberante, come organo rappresentativo della collettività, la cui rappresentatività va misurata anzitutto e in primo luogo proprio nello specifico rapporto numerico tra elettori ed eletti da cui scaturisce la sua composizione. A causa della riduzione di più di un terzo dei deputati, e rispettivamente dei senatori, la rappresentatività di ciascun organo rappresentativo ‒ giacché ciascun organo rappresenta la collettività, delibera per essa ‒ ne risulterà impoverita, se non proprio sfigurata, al limite di compromettere la riconoscibilità di ciascuna Camera come immagine plausibile della collettività: che è la condizione indispensabile per ritenerla legittimata ad agire in nome, per conto e in vece di essa.
La rappresentatività di un organo rappresentativo, lo sappiamo bene, dipende in sommo grado dalla legge elettorale, cioè dalla regola di trasformazione dei voti in seggi, e sarà tanto migliore quanto più conforme sarà questa regola al principio di proporzionalità. Ma ribadisco, la rappresentatività dipende anche e prima di tutto dal rapporto numerico tra elettori ed eletti. Se il valore di questo rapporto è troppo piccolo, nell’immagine del «paese legale» non sarà riconoscibile il volto del «paese reale»: sarà come un’immagine elettronica che abbia troppo pochi pixel, sgranata, implausibile, deformante.
Fuor di metafora: un rapporto numerico inadeguato, insufficiente tra elettori ed eletti è quello che introduce soglie di sbarramento di fatto elevate, a volte molto elevate, insensate, all’accesso agli organi rappresentativi per gli orientamenti politici minori. Per questo, altera già da sé la proporzionalità della rappresentanza, anche qualora fosse introdotta una buona legge elettorale proporzionale, ispirata al proporzionalismo personalizzato della legge tedesca (ma poi resterebbe tutto da discutere il problema della clausola di sbarramento). Si badi bene: ciò significa che una legge elettorale proporzionale non può da sé rimediare alla lesione della rappresentanza conseguente a un taglio eccessivo dei parlamentari. In ogni caso, il numero dei seggi parlamentari e la regola della loro distribuzione proporzionale ai gruppi di candidati (partiti, movimenti, chiamateli come volete) in base ai voti ottenuti, sono variabili tra loro indipendenti. E il modo sensato di considerare la loro relazione non è quello che si è affermato nel discorso pubblico, bensì il suo contrario: non è la legge elettorale proporzionale che deve essere vista come un correttivo alla diminuita rappresentatività del Parlamento conseguente alla riduzione dei seggi, ma è la riduzione dei seggi che va riconosciuta come un ostacolo alla rappresentatività degli organi parlamentari quale conseguirebbe dall’adozione (auspicabile) di una legge elettorale proporzionale.
Il fatto è che questa riforma origina da una cultura politica (diciamolo: incultura politica) antiparlamentare, che cerca da sempre la via per erodere la democrazia rappresentativa. Cominciando con la riduzione del numero dei parlamentari; proseguendo col tentativo di abolizione del divieto di mandato imperativo; suggerendo in questo modo di considerare i rappresentanti in quanto tali come usurpatori della «volontà del popolo». Al fondo di questa via non c’è la democrazia diretta, c’è la distorsione della democrazia. Abbiamo questo referendum ‒ to’ guarda: un istituto di democrazia diretta ‒, usiamolo per dirgli di no.
* Una parte del testo è stata usata per l’introduzione alla serie di interventi «Ridurre il Parlamento? Ragioniamo per decidere», curata dalla Scuola per la Buona Politica di Torino e pubblicata sul canale YouTube https://www.youtube.com/playlist?list=PLsKTCvGWNaZZ7iczwGUL3L6u72WF_FAHU