L’elusione, più o meno sfacciata, dei limiti posti dalla nostra Costituzione alla decretazione d’urgenza (art. 77 Cost.) non è certo un fenomeno recente. Alcune forme di elusione, molto note e commentate, sono già state censurate, seppur con intensità variabile, dalla giurisprudenza costituzionale. A partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso, infatti, la Corte costituzionale – abbandonando la “vecchia” idea che l’apprezzamento dei presupposti del decreto legge («i casi straordinari di necessità e urgenza») sia una valutazione sostanzialmente politica, insindacabile in sede giurisdizionale – ha provato ad arginare gli “abusi” più evidenti, censurando: la prolungata e consolidata prassi della reiterazione dei decreti legge (sentenza n. 360 del 1996); l’«evidente mancanza dei presupposti» che legittimano l’emanazione del decreto (sentenze nn. 25/1995, 171/2007 e 128/2008); l’intrusione nel decreto legge, anche per mezzo della legge di conversione, di norme «del tutto estranee alla materia e alle finalità del medesimo» decreto (sentenza n. 22/2012).
Recentemente, accanto a queste ormai classiche forme di elusione, sembrano consolidarsi forme elusive meno “sfacciate”, ma non per questo meno rilevanti dal punto di vista degli equilibri complessivi della nostra forma di governo. In ragione di una disciplina dei procedimenti endo-governativi piuttosto lasca, la deliberazione dei decreti legge da parte del Consiglio dei Ministri (prevista dall’art. 2, comma 3, lettera c), della l. 400/1988) – spesso – non rappresenta più il momento conclusivo della fase istruttoria che cristallizza il testo definitivo dei provvedimenti, bensì un momento meramente interlocutorio che sancisce un accordo politico (più o meno dettagliato) sul contenuto dei provvedimenti e apre una seconda opacissima fase istruttoria, volta alla stesura del testo definitivo (quello, per intenderci, che sarà trasmesso al Presidente della Repubblica e poi, salvo osservazioni dello stesso Presidente, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale). È quanto accade in occasione dei “decreti-legge copertina” e dei decreti legge deliberati “salvo intese”. In entrambe le circostanze, il Consiglio dei Ministri si limita a deliberare un testo (in casi estremi addirittura un mero schema) suscettibile di successive modifiche e integrazioni. Talvolta il testo definitivo torna in Consiglio dei Ministri per una seconda deliberazione (rendendo evidente la funzione prevalentemente “mediatica” della prima deliberazione); altre volte il secondo passaggio consiliare è assente e il decreto legge si perfeziona, in buona sostanza, senza una deliberazione dell’organo collegiale sul testo definitivo.
In questi casi – proprio per consentire la “limatura” (se non la vera e propria scrittura di parti) del provvedimento – il tempo che intercorre tra la deliberazione del Consiglio dei Ministri e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del provvedimento tende, inevitabilmente, a dilatarsi. Il recente “decreto semplificazione”, ad esempio, deliberato, come riportato dalla stampa, “salvo intese” in una riunione fiume del Consiglio dei Ministri, terminata all’alba del 7 luglio 2020, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale solamente il 16 luglio 2020. Ampliando l’orizzonte al primo anno della legislatura in corso, lo scarto temporale medio tra la riunione del Consiglio dei Ministri e la pubblicazione del decreto legge in Gazzetta Ufficiale è stato di 7,6 giorni. Il picco estremo è rappresentato dal decreto legge n. 32/2019 (c.d. decreto “sblocca cantieri”) la cui pubblicazione si è fatta attendere per ben 28 giorni (cfr., per qualche dato relativo alla XVIII legislatura, I decreti salvo intese e il richiamo di Mattarella, consultabile all’indirizzo internet www.openpolis.it).
Questa prassi dilatoria – è bene precisare – non caratterizza in modo esclusivo i governi Conte. Si è infatti messo in evidenza come, a partire dal secondo governo Prodi, lo scarto medio tra la deliberazione del Consiglio dei Ministri e la pubblicazione del decreto legge (all’epoca di 3,8 giorni) sia costantemente (fatta salva l’esperienza del governo Monti) aumentato, raggiungendo il valore di 9 giorni durante il governo Renzi.
Se a questi dati si aggiunge il fatto che molti decreti legge, anziché contenere «misure di immediata applicazione» (come, tra l’altro, vorrebbe l’art. 15, comma 3, della legge n. 400/1988), devolvono alle fonti subordinate (ai c.d. provvedimenti attuativi) aspetti anche molto rilevanti della disciplina normativa, la dissoluzione, nella prassi, del requisito dell’urgenza dell’intervento normativo appare evidente. Quale particolare urgenza potrà, infatti, “reggere” un provvedimento i cui effetti concreti – vuoi per l’attesa del testo definitivo, vuoi per l’attesa dei provvedimenti attuativi – sono proiettati in un momento futuro del tutto incerto? È pur vero, come peraltro affermato anche dalla Corte costituzionale (sentenza n. 16/2017), che l’urgenza potrebbe riguardare il “provvedere” più che lo specifico provvedimento; ma è altrettanto vero che il differimento nel tempo dell’efficacia concreta del decreto legge rende, senz’altro, meno evidente l’urgenza dell’intervento normativo.
Oltre al requisito dell’urgenza, altri principi costituzionali sembrano opporsi alle prassi dilatorie appena richiamate (cfr. A. Di Chiara, Due prassi costituzionalmente discutibili: delibere del Governo “salvo intese” e pubblicazione tardiva dei decreti legge, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. n. 1/2019, 13 e segg.).
Innanzitutto, l’art. 77, comma 2, Cost. – qualificando esplicitamente i decreti legge come «provvedimenti» – lascia intendere che oggetto della deliberazione del Consiglio dei Ministri non sia un generico accordo politico, bensì un vero e proprio testo normativo, sufficientemente dettagliato (caratterizzato, addirittura, dalla concretezza tipica dei comuni provvedimenti amministrativi). In secondo luogo, l’art. 95, comma 2, Cost. – sancendo il principio per cui «i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri» – presuppone, in qualche modo, la corrispondenza tra ciò che delibera il Consiglio e ciò che può essere attribuito alla responsabilità collegiale dei Ministri. Nel caso in cui il testo definitivo del decreto non torni più in Consiglio per una seconda deliberazione questa corrispondenza viene meno e la responsabilità collegiale rischia di estendersi a un atto formalmente mai deliberato dal Consiglio.
Vi è poi una ragione di fondo che si oppone alle menzionate prassi dilatorie. Dietro la deliberazione “salvo intese” si nasconde l’idea che sia possibile separare nettamente la decisione politica dalle questioni “tecniche”, riguardanti la formulazione delle disposizioni normative. In Consiglio sarebbe sufficiente definire un accordo politico, mentre ai “tecnici” spetterebbe il compito di tradurre quell’accordo nel testo definitivo del decreto legge. Nella prassi, infatti, è il Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi della Presidenza del Consiglio (il DAGL), attraverso un’attività di coordinamento tra gli uffici legislativi dei Ministeri coinvolti, a dare il contributo più significativo alla stesura definitiva del decreto legge. Peraltro, la distinzione tra decisione politica e valutazione tecnica non è sempre agevole: stabilire, ad esempio, quali grandi opere pubbliche “sbloccare”, individuando un procedimento più snello rispetto a quello ordinario, è scelta squisitamente tecnica oppure è una decisione sostanzialmente politica? Nel caso delle deliberazioni “salvo intese”, il rischio è che – liquidando “frettolosamente” come tecnica una decisione anche politica – la Presidenza del Consiglio assuma, per il tramite del DAGL, un ruolo sempre più rilevante nella produzione di atti che il modello costituzionale riserva esplicitamente al Consiglio dei Ministri. Per questa ragione sarebbe bene che, in questi casi, il testo definitivo tornasse sempre in Consiglio per una seconda (e questa volta definitiva) deliberazione.
Le vicende riguardanti il sistema delle fonti, come noto, sono il riflesso delle trasformazioni riguardanti la forma di governo. Se le prime forme elusive della disciplina costituzionale riguardante i decreti legge hanno contribuito a spostare il baricentro della produzione normativa dal Parlamento al Governo, le forme elusive più recenti hanno contribuito a spostare il baricentro della produzione normativa del Governo dal Consiglio dei Ministri al Presidente del Consiglio (come dimostra, tra l’altro, il ricorso sempre più frequente ai decreti del Presidente del Consiglio aventi un contenuto tipicamente normativo). E la concentrazione di poteri normativi in capo a un organo (oltretutto monocratico) è – come tutte le concentrazioni di potere – un pericolo al quale la nostra Costituzione guarda, senza dubbio, con sospetto. Inoltre, rinunciare alla collegialità significa non solo violare, come detto, specifiche norme costituzionali, ma anche stravolgere il concetto di fonte del diritto fatto proprio dalla nostra Costituzione. Negli ordinamenti democratici e pluralistici come il nostro, tutte le fonti (e, dunque, anche i decreti legge) non rappresentano più la semplice manifestazione dell’autorità dell’organo che le ha prodotte, bensì qualcosa di più profondo: un autentico, e il più possibile trasparente, «processo di integrazione politica», che permette di tenere insieme società socialmente e politicamente sempre più frammentate. Scorgere un qualche «processo di integrazione politica» dietro un decreto legge deliberato “salvo intese” – che si è, dunque, perfezionato fuori dal Consiglio dei Ministri, all’esito di una negoziazione opaca tra organi costituzionali, strutture dipartimentali e uffici legislativi – riesce piuttosto difficile.