Preoccupa la diffusione di una pur comprensibile, generica volontà di ritorno alla normalità che, partendo dalla Confindustria, investe tutte le categorie produttive e, a livello popolare, si traduce in pur comprensibile nostalgia di libertà in ogni forma. Con un Salvini, in calo di consensi, nostalgico delle sue piazze. È come se, nella cosiddetta seconda fase, si rischiasse di ripercorrere la traiettoria della prima: dalla Lombardia al resto d’Italia! Con la Calabria e la provincia autonoma di Bolzano che decidono di farsi giustizia con le proprie mani.
Il Governo faccia attenzione a non perdere questa occasione di rinnovamento. Se le grandi unità produttive, quelle mai chiuse come quelle riaperte, sono ormai prescelte quali motore dell’economia residua, oltre che beneficiati di provvidenze, prudenza pandemica, oltre che equità sociale, consiglierebbe misure di riduzione dell’orario di lavoro (a partire dalle 30 ore proposte dal PD) e, ove possibile, nuove assunzioni.
In realtà, ciò che rischia di restare insoddisfatto, è un assoluto bisogno di discernimento. La pandemia ha aperto una nuova questione meridionale che andrebbe affrontata con assoluta urgenza. Le cifre parlano chiaro. Secondo l’Istat, da marzo a metà aprile 2020 la mortalità in Italia è cresciuta del 49,6% rispetto allo stesso periodo del 2019. In Lombardia ha raggiunto livelli vertiginosi (a seconda delle località ben oltre il 300%, con Bergamo oltre il 600%), mentre nel Sud Italia, Roma compresa, è addirittura diminuita del 1,9%! Nel complesso, tutte le regioni del sud segnano cifre di decessi e di contagio drasticamente inferiori a quelle del centro-nord, con le sole eccezioni di Trentino-Alto Adige, della Valle d’Aosta e, in parte, di Friuli-Venezia Giulia.
Non occorre essere degli epidemiologi per capire che, al di là di polemiche strumentali e delle prove di forza istituzionali in atto, ne derivano alcune decisioni sul tavolo di un Governo che, ad oggi, ha saputo muoversi con prudente buon senso, anche se prigioniero delle forzature lombardo-venete che inducono soluzioni nazionali.
La prima, di assoluta urgenza dopo le decisioni assunte dal 4 maggio (che in linea di principio consentono il rientro nelle sedi di residenza), è quella di arginare e di selezionare con adeguate misure di controllo, se non precludere, un flusso incontrollato di rientri da nord verso sud, di cui si rilevano i segni nei primi spostamenti e nelle prenotazioni di mezzi di trasporto. Le ragioni, del resto evidenti, derivano dalla necessità di salvaguardare le popolazioni relativamente meno colpite (salvo alcuni comuni, già dichiarati zone rosse) dall’estendersi a macchia d’olio della pandemia. I mezzi, meglio se drastici, vanno dai divieti di accesso, alla quarantena (come quella già disposta dalla Regione Puglia) e a controlli sanitari, di più difficile gestione, nelle sedi di arrivo.
La seconda decisione, quasi altrettanto urgente (il 18 maggio è ormai vicino) è quella di consentire alle regioni meno colpite di precedere quelle infette nella riattivazione di una vita sociale ed economica ‒ circolazione delle persone, riapertura di attività artigianali e commerciali, ristorazione, spettacoli ed eventi sportivi locali ‒ pur nella salvaguardia di regole di base, di igiene e di distanziamento umano. Quanto è avvenuto sulla spiaggia di Mondello insegni! È da tenere presente che la sopravivenza economica del Meridione, relativamente meno industrializzato, dipende nell’immediato ‒ oltre che dalle provvidenze statali, dall’economia sommersa (per usare un termine generico) e dal turismo, ancora penalizzato per le ragioni anzidette ‒ da questo tipo dì attività sociali e commerciali. È palesemente assurdo riaprire le fabbriche in maniera indiscriminata (i dipendenti rimessi al lavoro nel Sud sono neanche un quinto del totale nazionale), mentre si costringono regioni come la Calabria e l’Umbria ‒ tanto per fare due esempi con caratteristiche diverse, ma accomunate da un livello quasi inconsistente di contaminazione ‒ all’osservanza delle stesse restrizioni e cautele ragionevolmente prolungate nelle zone più infette. Lasciare, invece, le briglie sul collo a Lombardia e Piemonte, in nome delle autonomie regionali, risulta assai pericoloso.
Non tenere conto, da subito, di queste diversità, a un tempo pandemiche e strutturali, significherebbe rischiare uno scenario politicamente devastante, segnato dalla riattivazione della criminalità organizzata, da probabili insurrezioni di forconi, oltre che dalla crescita dei Fratelli d’Italia di Meloni, a spese di Salvini ma, soprattutto, del M5S. A più lunga scadenza, significa anche rinunciare a un ripensamento strategico di sviluppo, fondato su beni culturali e ambientali, di cui il Mezzogiorno potrebbe assumere un ruolo di punta per l’intero Paese.
Per dirla in forma provocatoria, i presidenti di regione come De Luca (Campania) e Santelli (Calabria) e i sindaci come De Magistris hanno ragione nel merito, quando pretendono a un tempo isolamento dal virus “nordico” e ritorno a una normalità sociale. Insomma, rendiamoci conto che, se il contagio fosse inversamente collocato, il Nord reclamerebbe la restaurazione della Linea Gotica, con i cannoni puntati verso Sud. Dove i cosiddetti governatori sbagliano, e vanno messi in riga, è nella rivendicazione di poteri autonomi specificamente esclusi da una diversificazione che richiede decisioni centralizzate e dettagliate, pronte ed efficaci da parte del Governo, con decreti legge che la Costituzione prevede per le situazioni di emergenza, a tempo debito sottoposti al Parlamento. Non ingiunzioni e dispute presso i Tar, precedute da pareri dell’Avvocatura dello Stato, ministro Boccia!