Yacht, progressività fiscale e Costituzione

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Pur nella scansione frenetica degli eventi, alcune cose si possono rilevare.

Il caos dei conflitti fra norme dei decreti del presidente del Consiglio e ordinanze regionali è frutto della mai abbastanza censurata riforma dell’art. 117 della Costituzione, che un centro sinistra culturalmente succube dell’ideologia leghista e (soprattutto) degli interessi economico-finanziari della parte ricca del paese, oggi travolta dalla pandemia, ha approvato nel 2001. È lì che sta scritto che «la tutela della salute» è materia di legislazione concorrente fra Stato e Regioni, nella quale il primo può dettare solo «i princìpi fondamentali». Ora, applicando il criterio di riparto dettato dalla norma costituzionale al decreto legge n. 19 del 25 marzo 2020 ‒ in cui sono indicate le «limitazioni», le «chiusure» e i «divieti» (art. 1) che possono essere adottati con decreti del presidente del Consiglio dei ministri (art. 2) ed è stabilito che le Regioni possono introdurre solo misure «ulteriormente restrittive» ‒ potrebbero sorgere legittimi dubbi sulla prevalenza delle norme del decreto legge rispetto a quelle regionali, non trattandosi, all’evidenza, di «princìpi fondamentali» ma di una serie di minuziose prescrizioni di dettaglio. Né tantomeno potrebbe soccorrere la previsione dell’art. 10 dell’ultimo DPCM (26 aprile), che salva solo le «misure di contenimento più restrittive» adottate dalle Regioni, essendo questo un mero atto amministrativo.

In tale garbuglio normativo si inseriscono le numerose ordinanze adottate negli ultimi giorni dai presidenti di Regione di Centro destra, che, in aperta sfida alle disposizioni governative, danno via libera alle più svariate attività: da ristoranti e pizzerie con tavoli all’aperto (e se poi, mentre si aspetta il secondo, inizia a piovere che si fa? mi rimborsano il prezzo o continuiamo il pasto all’interno?) alle visite giornaliere alla propria imbarcazione per attività di manutenzione (e non si parla di pescherecci, ché «pesca e acquacultura» sono attività già riaperte dal DPCM del 26 aprile, ma di barche da diporto, l’accesso quotidiano alle quali evidentemente assume, per quei presidenti, i connotati di un diritto di rango costituzionale).

Per il centro destra è un azzardo giocato, sul piano del tornaconto politico, con ottime carte. Tre sono, infatti, i possibili esiti della partita: 1) che il Governo impugni davanti al TAR le ordinanze e ne ottenga la sospensiva ed allora si alzeranno altissimi i lai dei presidenti di centro destra, ergentisi a paladini degli istinti di pancia delle loro categorie di riferimento, accompagnati dalla protesta dei molti lavoratori subordinati che speravano di poter tornare al lavoro; 2) che il Governo non faccia nulla o non ottenga la sospensiva dal TAR e dalle aperture regionali non derivino sfracelli in termini di salute pubblica (magari qualche decina di morti in più per regione, che sarebbero ben metabolizzati nel condiviso prevalere delle ragioni dell’economia); 3) che il Governo non faccia nulla e queste ordinanze portino ad aumenti esponenziali di morti e di positivi al virus. Solo l’ultima ipotesi gioverebbe politicamente alle fortune politiche della maggioranza giallorossa, ma sarebbe evidentemente inaccettabile una tattica politica costruita sulla scommessa di una nuova ecatombe.

Allora, per istinto di sopravvivenza, se non per adesione ideale, il Governo potrebbe forse essere costretto a considerare l’istituzione dell’unica misura economica che, nell’immediato, lo metterebbe al riparo dalle manovre demagogiche ed eversive della destra: un reddito di base incondizionato le cui ragioni sono ricordate quasi quotidianamente (v. da ultimo http://www.questionegiustizia.it/articolo/il-reddito-di-base-sociale-incondizionato-rbsi-come-reddito-primario-e-istituzione-del-comune_28-04-2020.php). La sola strada che consentirebbe di dare immediata prevalenza alle ragioni della solidarietà su quelle del profitto, di snellire procedure e farraginosi adempimenti burocratici di cui tutti si lamentano, di porre le basi per un nuovo welfare riducendo ad unità le misure di sostegno al reddito che si vanno moltiplicando come in un caleidoscopio negli ultimi interventi normativi, di sottrarre i lavoratori al solito ricatto che s’intravede nitidamente nella citate ordinanze regionali, quello di dover scegliere fra salute e lavoro, fra salario e una «esistenza libera e dignitosa».

Da una simile opzione conseguirebbe, pressoché inevitabilmente, la necessità di cercare subito le risorse necessarie alla sua attuazione là dove si possono trovare (gli aiuti dell’Europa sono, allo stato, cosa lontana e incerta e, come ci ricordano i dati di Oxfam, a metà 2019 in Italia il 10% più ricco della popolazione deteneva una ricchezza superiore di oltre sei volte quella del 50% più povero e, negli ultimi 20 anni, la ricchezza di quel 10% è aumentata del 7,6%, mentre la povertà di quel 50% è aumentata del 36,6%: https://www.oxfamitalia.org/davos-2020/). Livio Pepino ci ricordava qualche giorno fa che, nell’attuale situazione, «un incremento della tassazione sui redditi più elevati è semplicemente necessario» e che, fino agli anni Settanta del secolo scorso, in questo Paese erano previsti per l’imposta sul reddito, ben 32 scaglioni di reddito, il più alto dei quali addirittura al 72% (https://volerelaluna.it/commenti/2020/04/13/coronavirus-fase-2-guai-ai-poveri/). Attualmente ne sono, invece, previsti solo cinque, il più alto dei quali, per i redditi superiori ai 75.000 euro annui, del 43%: il che vuol dire che chi, come il sottoscritto dopo quasi trent’anni di magistratura, rientra in tale scaglione percependo un reddito annuo di circa 131 mila euro, paga la stessa percentuale Irpef di chi guadagna in un anno più di un milione o due milioni o 100 milioni di euro (certo non categorie di fantasia, se si pensa ai redditi di noti imprenditori, politici-imprenditori, giocatori di calcio, manager d’imprese private e pubbliche, anchorman televisivi ecc.).

Ora, io sono ben lieto di contribuire alla spesa pubblica in base alla mia capacità contributiva, come la Costituzione prescrive (art. 53), ma vorrei che la Repubblica ricordasse finalmente l’esistenza del principio, previsto da quella stessa disposizione, secondo cui «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Il padre costituente cui lo si deve, Salvatore Scoca, democristiano e magistrato anch’egli, sostenne la norma con queste efficaci parole: «ho sempre pensato che chi ha dieci mila lire di reddito e ne paga mille allo Stato, con l’aliquota del 10 per cento, si troverà con 9 mila lire da impiegare per i suoi bisogni privati; mentre chi ne ha centomila, dopo aver pagato l’imposta del 10 per cento in base alla stessa aliquota, si troverà con una disponibilità di 90 mila lire. È ovvio che, per pagare l’imposta, il primo contribuente sopporta un sacrificio di gran lunga maggiore del secondo, e che sarebbe equo alleggerire l’aggravio del primo e rendere un po’ meno leggero quello del secondo».

Principi di giustizia ed equità persino banali. Chissà che le dure necessità imposte dalla pandemia non diano finalmente a chi di dovere il coraggio di perseguirli.

Gli autori

Emilio Sirianni

Emilio Sirianni, magistrato, è presidente della sezione lavoro della Corte d’appello di Catanzaro e segretario della sezione locale di Magistratura democratica

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