La distanza sociale e l’agire collettivo

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Scrive Judith Butler, in L’alleanza dei corpi, che «quando i corpi si raggruppano nelle strade, nelle piazze o in altre forme di spazio pubblico (incluse quelle virtuali), essi esercitano un diritto plurale e performativo di apparizione, un diritto di affermazione e di insediamento del corpo al centro del campo politico, e […] pongono l’istanza corporea di un insieme di condizioni economiche, sociali e politiche più vivibili, sottratte alle forme indotte di precarietà».

Le aggregazioni assumono un significato politico prima ancora di formulare delle esplicite rivendicazioni; che ne è allora dell’azione collettiva nel momento in cui l’imperativo della coesistenza sociale diventa la distanza? Oggi ci troviamo imprigionati in una sorta di kairòs, una congiuntura temporale – o meglio, una sospensione del tempo – in cui si saldano i coni d’ombra del passato e l’anticipazione di un futuro distopico. Siamo stati riprecipitati, infatti, nel paradigma della modernità politica, per giunta nella sua versione più aggressiva: la supremazia dello Stato nazionale, che è sovrano proprio in quanto decide sullo stato di eccezione. Nello stesso tempo, a fronteggiare questo risorgente Leviatano (che sarà temporaneo, certo, ma potrà sempre essere resuscitato per emergenze future) non è più il tessuto sociale della modernità (a partire dalle aggregazioni di classe), bensì una società de-socializzata, che incarna, come ha notato Naomi Klein, l’utopia più audace di Silicon Valley: una rete di individui risucchiati da Internet e distanziati fisicamente, oltre che moralmente, dalla paura del prossimo, e della prossimità.

Può essere una trappola mortale per l’azione collettiva. Pensiamo a tre movimenti, due nostrani e uno globale, che l’emergenza Coronavirus ha per così dire messo in standby: i NO TAV, le Sardine e lo sciopero per il clima.

L’immediata valenza politica dell’aggregazione è da sempre un tratto distintivo del movimento della Val di Susa: nelle assemblee come nelle azioni di protesta, nelle dimostrazioni come nella convivialità, lo stare insieme dei valligiani, e di chi li ha sostenuti, ha espresso di per sé – prima e oltre le prese di posizione verbali – una rivolta contro la concezione egemonica della politica. Il movimento è nato ben prima del Coronavirus e molto oltre resisterà, ma è ragionevole scommettere che il cantiere per la madre di tutte le grandi opere sarà ripristinato prima del diritto di manifestare: il primo “strategico”, il secondo accessorio. Le Sardine subiscono una beffarda legge del contrappasso: dopo essere riuscite a riempire di nuovo le piazze, facendo proprio della contiguità fisica il loro messaggio (che a dire il vero è rimasto piuttosto confuso nelle sue espressioni prettamente verbali), sono oggi condannate all’assenza, al confinamento entro piccoli spazi domestici. Infine, lo sciopero per il clima, il movimento avviato da Greta Thunberg, che in nome delle responsabilità intergenerazionali e globali della democrazia ha richiamato nelle strade – del tutto inaspettatamente – milioni di persone, soprattutto giovani, si ritrova oscurato dal nazionalismo (quando non dal localismo più becero).

Colpisce che, a fronte di questa paralisi forzata dei movimenti più attivi negli ultimi tempi, a mobilitarsi sia stato proprio il movimento che tutti davano per spacciato: quello dei lavoratori. I corpi degli operai e delle operaie hanno ritorto l’aggregazione loro imposta dal processo di valorizzazione capitalistica (anche a costo del contagio) contro la legge del profitto. Su questa resistenza, sia pure in ultima istanza (perché la posta in palio è la salute, se non la vita), di un movimento frantumato e rimosso dalla narrazione della società liquida qualche riflessione forse dovremmo farla.

Perché di azione collettiva, di movimenti sociali, abbiamo oggi più bisogno che mai. Intanto per smascherare la colata di ipocrisia che ci si è rovesciata addosso nelle ultime settimane. Si sente dire in questi giorni che l’Italia dà il meglio di sé nelle emergenze. Peccato che il valore di un paese si misuri nella normalità. E da decenni a questa parte la norma è (non solo in Italia, ma qui più ferocemente che altrove), la seguente:

– la sanità pubblica è stata compressa sempre più, per lasciare il posto a quella privata (al punto che ormai il costo di un prelievo del sangue presso un laboratorio privato è inferiore al ticket del servizio sanitario);

– “i nostri nonni”, per i quali tutti versano oggi fiumi di lacrime, benché chiamati a supplire alle voragini del welfare pubblico ricevono in moltissimi casi delle pensioni da fame e, quando non più autosufficienti, non potendo contare su servizi di assistenza domiciliare, se non possono permettersi badanti o case di riposo a tre stelle, finiscono in lazzaretti (e non scarichiamo la colpa sui figli ingrati: su questo dovremo imparare molto, dal luteranesimo del Nord Europa);

– le regioni meridionali, la cui “protezione” dal virus è stata invocata da molti come motivazione principale della chiusura dell’intero paese, sono state strutturalmente condannate, lungo l’intero arco della storia unitaria, a un apparentemente ineluttabile stato di minorità. Sostenere che eventuali rivolte al Sud contro l’impoverimento da quarantena sarebbero sicuramente fomentate dalla criminalità organizzata equivale, nella migliore delle ipotesi, a ottusa cecità, quando non a malafede.

L’agire collettivo sarà poi indispensabile per vigilare sulle misure anticrisi. Si chiede che esse salvaguardino – possibilmente, si aggiunge a sinistra, con provvedimenti di natura universalistica – tutti coloro che sono stati colpiti dalla crisi. Una rivendicazione sacrosanta. Ma gli altri? I malati, i poveri, i disoccupati che c’erano già prima? Saranno trattati come perdenti di serie B perché sono stati impoveriti non dall’emergenza, bensì dalla normalità capitalistica?

Il kairòs che stiamo attraversando – vagheggia qualcuno – potrebbe sfociare in una svolta “collettivista” del quadro politico mondiale. Per scongiurare l’altro scenario (la gestione privatistica di un’emergenza protratta all’infinito, o, peggio, il baratro di pulsioni ancora più retrive di quelle che ci hanno travolto negli ultimi anni), quando potremo di nuovo incontrarci dovremo progettare – non con un linguaggio comune, ma imparando molti linguaggi diversi e traducendoli tra loro – un mondo libero da quel dominio di classe, di genere, di etnia – e di specie – che è il capitalismo.

Gli autori

Monica Quirico

Monica Quirico, storica, è honorary research fellow presso l'Istituto di storia contemporanea della Södertörn University di Stoccolma. La sua ricerca verte sulla storia e la politica svedese, spesso in prospettiva comparata con l'Italia. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo (Torino, Rosenberg & Sellier, 2018), scritto con Gianfranco Ragona.

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