Ora che un po’ alla volta il polverone di retorica sui buoni sentimenti, sull’italianità e sui vari eroismi sta lasciando il posto alle nude cifre, che documentano ogni giorno il fallimento del sistema sanitario di fronte all’epidemia in corso, si può finalmente iniziare a discutere di cosa dovrebbe essere cambiato in futuro nel sistema economico e sociale e in quale direzione occorrerebbe farlo.
1.
Il nostro sistema sanitario si sta dimostrando inadeguato anche e soprattutto in quelle che dovrebbero essere le sue punte di eccellenza, non solo per i tagli che ha subìto in questi ultimi trent’anni di liberismo dissennato, spesso in favore di un’iniziativa privata che risulta oggi evidentemente inutile, ma anche per un’impostazione sbagliata, che ha privilegiato l’industrializzazione della sanità rispetto alla diffusione di presidi e strumenti di prevenzione. Si sono realizzate (e più spesso solo progettate), infatti, megastrutture ospedaliere scegliendo di chiudere i piccoli e medi presidi distribuiti sul territorio privilegiando l’ospedalizzazione rispetto alla prevenzione. Anche l’epidemia attuale è stata inevitabilmente affrontata con questa stessa logica concentrando tutta l’iniziativa negli ospedali senza fare in maniera estesa uno screening sul territorio che permettesse di dimensionare effettivamente il fenomeno e di circoscriverne la diffusione con iniziative mirate verso i casi asintomatici e lievi.
In alcune zone, come il Piemonte, i tamponi non sono stati eseguiti inizialmente neanche per tutto il personale sanitario; l’estensione di questa iniziativa è tuttora ferma perché, incredibilmente, mancano i reagenti e i laboratori attrezzati per le analisi sono insufficienti. L’unica “prevenzione” che viene sollecitata in maniera sempre più forte è, invece, la militarizzazione del territorio che serve ben poco a limitare la circolazione del virus e alimenta un clima di sospensione della democrazia. La pressione drammatica esercitata dall’ospedalizzazione di massa inoltre non permette probabilmente ai medici ospedalieri di effettuare – almeno fino ad ora ‒ un’adeguata sperimentazione di metodologie di cura dei casi seri, ma non ancora gravi.
Alla fine, che ancora non si intuisce nemmeno, di questo drammatico periodo bisognerà contrastare fortemente il ripristino della situazione precedente: non basterà rimediare alle carenze di organico e rifinanziare adeguatamente un sistema che è stato spolpato per fare spazio alla sanità privata e alle assicurazioni, ma occorrerà rivendicare anche una svolta verso la prevenzione sanitaria. Tutto questo richiederebbe un enorme investimento pubblico perché il privato non vorrebbe, né potrebbe, farsi carico di una riconversione di questo tipo: la prevenzione sanitaria, infatti, non è un mercato remunerativo.
2.
Il primo violento impatto delle misure prese per arginare la diffusione dell’epidemia è stato quello sulla scuola: si può dire che l’anno scolastico sia terminato col primo quadrimestre.
Anche in questo caso, dopo la prima ondata di immancabile retorica, oggi ci si confronta con i problemi veri derivanti dalle forti disomogeneità non solo delle famiglie, ma anche delle stesse istituzioni scolastiche nell’utilizzare strumenti digitali per dare una qualche continuità all’attività didattica. Come per la sanità, infatti, siamo di fronte a un settore di pubblico interesse che è stato gravemente sacrificato negli ultimi decenni dal punto di vista dei finanziamenti e molto penalizzato, soprattutto per quanto riguarda la scuola superiore, negli orientamenti di programma e nelle strutture didattiche (laboratori, tecnologie, formazione del personale). Alcuni istituti scolastici hanno trovato risorse interne per adeguarsi alla situazione anomala di questi giorni, altri solo in parte e molti altri per niente. Questa disomogeneità territorialmente non coincide con la classica divisione del Paese tra nord e sud, ma si si sviluppa a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale e, per quanto riguarda la scuola superiore, registra la classica divisione classista tra le scuole per i poveri (tecnici e soprattutto professionali) e quelle per i “ricchi” o “meno poveri” (licei). La scuola italiana è inadeguata a fornire, se non a tutti, almeno alla grossa parte dei suoi allievi gli strumenti per essere cittadini coscienti e attivi in una società complessa e in via di trasformazione come quella attuale: come sappiamo la stessa condizione di salute dei cittadini moderni è fortemente correlata al livello di istruzione e di cultura.
I problemi della scuola e la difficoltà a utilizzare gli strumenti digitali mettono in evidenza anche l’esigenza che venga completata e rafforzata l’infrastruttura della rete telematica coprendo l’intero territorio nazionale in modo uniforme.
Dopo ridicoli e fallimentari tentativi, sviluppati nei decenni scorsi, di trasformare gli istituti scolastici in una sorta di piccole aziende “autonome” senza soldi e senza strutture, bisognerebbe, al termine di questa epidemia, riconsiderare tutto l’impianto scolastico, a partire dal ruolo stesso degli insegnanti, per fare della scuola stessa e dell’università un propulsore per la riqualificazione non solo delle forze produttive, ma anche della stessa cittadinanza.
Da questo punto di vista bisognerebbe una buona volta potenziare ed estendere anche l’educazione per gli adulti che è particolarmente carente nel nostro paese rispetto agli altri paesi del nord Europa.
Anche nel settore dell’istruzione, università e ricerca, dunque, ci troviamo di fronte a compiti e a dimensioni di spesa che richiedono un forte intervento pubblico e a obiettivi e finalità che per nulla si adattano a una logica di mercato.
3.
Un terzo drammatico aspetto che l’epidemia ha messo in evidenza è quello delle attività lavorative: milioni di lavoratori dipendenti e autonomi, stabili e precari sono ora a casa con ben poche garanzie di poter salvaguardare il proprio reddito e di poter far fronte alle spese indispensabili. Poche aziende e amministrazioni pubbliche sono state in grado di riconvertire effettivamente i compiti d’ufficio nel cosiddetto smart working o, più semplicemente, nel lavoro a distanza. Per tutti i lavoratori di fabbrica la situazione è risultata subito drammatica, ponendoli di fronte alla prospettiva di perdere il lavoro oppure a quella di lavorare rischiando il contagio: gli scioperi di questi giorni hanno reso evidente questa alternativa.
Ora si prospettano agevolazioni, indennità una tantum, bonus, ammortizzatori sociali in una selva di norme e procedure che finiranno per creare anche questa volta mille eccezioni e tante incongruenze e discriminazioni, aggiungendosi al reddito di cittadinanza e a tutte le altre provvidenze dirette e indirette di sostegno al reddito.
Dopo questa esperienza occorrerà riprendere seriamente la discussione sulla proposta del reddito di base incondizionato, che fino a qualche tempo fa sembrava una chimera non solo dal punto di vista dei datori di lavoro, ma anche da quello delle organizzazioni sindacali. È importante notare come su questa proposta convergano ora sia riflessioni sociopolitiche (si veda ad esempio Erik Olin Wright, Per un nuovo socialismo e una reale democrazia), sia argomentazioni di natura ambientalista (in proposito Simon L. Lewis, Mark A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene).
Quali i vantaggi di un reddito di base incondizionato? Ecco cosa scrivono gli autori del secondo testo citato: «Libertà di continuare a studiare, aumento del numero delle persone qualificate e riduzione delle diseguaglianze, gestione della disoccupazione determinata dall’automazione, possibilità di spezzare il legame tra lavoro e consumo e di ridurre l’impatto ambientale, possibilità di rifiutare lavori dannosi per l’ambiente e la salute, possibilità di ridurre lo sfruttamento, disponibilità di tempo per i lavori di cura dei bambini e degli anziani e per lavori creativi».
L’epidemia attraversa la struttura sociale del paese, ma riconferma naturalmente la classica divisione di classe: i tamponi sono stati disponibili per politici, personaggi dello spettacolo e calciatori plurimilionari, ma non per la gente comune e neanche per il personale sanitario. I “poveri”, se non sono lavoratori indispensabili, sono chiusi in casa, mentre i “ricchi” sono scappati nelle seconde case; le persone sono confinate nelle abitazioni o nei posti di lavoro, ma nel frattempo i capitali speculativi sono liberi di circolare e di giocare in borsa, sfruttando tecniche truffaldine come le vendite allo scoperto (solo recentemente vietata dalla Consob), cioè cedendo titoli che non possiedono per acquistarli subito dopo a prezzi ribassati.
Come scrivono Vineis, Carra e Cingolani (Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica) questo sistema socioeconomico è condizionato tra tre debiti. Il debito economico e sociale, che determina le crescenti disuguaglianze e che lascia tracce nella mente e nella salute dei ceti “più deboli”; il debito ambientale, generato dai cambiamenti climatici, dall’inquinamento e dalla massiccia deforestazione: questa stessa epidemia si spiega, infatti, come altre recenti e come quelle future che ci attendono, con l’innalzamento della temperatura media, con l’inquinamento dell’aria (Hubei e pianura padana sono tra le zone più inquinate del pianeta, le morti attuali in Italia a causa del coronavirus si concentrano in larghissima maggioranza nelle regioni padane), con la distruzione degli habitat naturali delle specie che ospitano i virus, attraverso la deforestazione e il conseguente passaggio dei virus alla nostra specie (D. Quammen, Spillover); il debito cognitivo, che è causato dal basso livello di conoscenze e competenze di una fetta importante della popolazione, priva di autonomia decisionale e sottoposta a un forte stress psicologico e fisico nel tentativo di adattarsi all’ambiente sociale, culturale e di lavoro tutto orientato alla competizione più sfrenata.
È ormai evidente che contrastare questi tre debiti e cercare di realizzare il potenziamento e l’arricchimento del sistema sanitario, del sistema di istruzione, formazione e ricerca, la creazione di una condizione di reddito adeguato per tutta la popolazione non è possibile attraverso il meccanismo del mercato capitalistico: raggiungere quegli obiettivi, infatti, vuol dire introdurre elementi di una società diversa come contraddizioni nel sistema attuale, cioè “erodere il capitalismo”, come proponeva Olin Wright.
Bisogna discuterne già ora con una grande dose di ottimismo, perché, quando finalmente questa epidemia sarà finita, non basteranno gli abbracci e i buoni sentimenti della ritrovata socialità a permetterci di affrontare la depressione economica, i conflitti sociali e la lotta per la difesa dell’ambiente che ci attendono.
Bene! In futuro le leggi esprimano sempre l’aspirazione a perseguire ameno due obbiettivi: la crescita economica diffusa e la crescita culturale diffusa. La crescita economica diffusa significhi disponibilità equivalente per gli individui di usufruire di vita soddisfacente e crescita culturale diffusa partecipazione vera al miglioramento di relazioni sociali. Se la legge persegue solo uno dei due obiettivi risulterà quasi sicuramente controproducente e di fatto attuata per produrre tutti guai che ci sono caduti addosso. Le buone leggi devono produrre non solo il servizio al cittadino ma la sua spinta alla partecipazione, che è l’unico controllo democratico.