Diverse sono le dimensioni che entrano in gioco nel «dispositivo populista» relativamente ai «processi di formazione del consenso», scrive Marco Revelli nel suo bel libro, nato da un colloquio con Luca Telese, Turbopopulismo. La rivolta dei margini e le nuove sfide democratiche (Solferino-Corriere della Sera, Milano 2019). Due gli sembrano «assolutamente centrali», quella linguistica e quella alimentare. Si tratta di dimensioni, precisa, che più che alle scienze politiche pertengono «al campo dell’antropologia, o della simbolica del profondo» (p. 127), ai cui fenomeni egli si avvicina con il piglio e con la passione dell’entomologo. Queste due dimensioni non sono scollegate, ma interdipendenti, poiché il «gastropopulismo», che da esse si sviluppa (così Revelli definisce il populismo salviniano), non nasce solo dalla semplice «messa in scena del cibo» (p. 121), ma dalla precisa scelta di dare voce alla lingua delle viscere e di istituire così un linguaggio viscerale. L’unico dialogo che il gastropopulismo potrà pertanto consentire non è con la mente, che viene semplicemente bypassata, ma con la pancia. Infatti, quando il medium comunicativo tra gli individui sono le viscere, allora non si pone più la difficoltà della riflessione, ma la semplicità del riflesso condizionato pavloviano. Non c’è più né spazio né tempo per il dubbio critico, ma solo quanto basta per la reazione istintiva. Non si dà più la lungaggine del pensiero, ma la subitaneità dell’azione pura. Non l’uomo razionale, ma l’animale impulsivo. Non la pietà, ma l’empietà. Non l’umano, ma il disumano. Ciò significa che la lingua del populismo, ossia della narrazione politica che fa leva sull’istinto, non può che essere viscerale, cioè duale (fame/non fame, buono/non buono), proprio come il linguaggio binario dei computer a base due (0/1). Questo, ovviamente, non vuol certo dire che il sistema binario sia semplice come la logica populista, ma che questa si struttura sull’apparente semplicità di quel sistema.
A tutte le latitudini e in tutte le epoche il populismo si afferma e si diffonde in analoghe condizioni sociali. Mette soprattutto radici nel tempo dell’indigenza. Che è il tempo della fame e della paura, della precarietà e dell’incertezza. Quello che Ken Loach ha, ad esempio, così bene rappresentato in Sorry we missing you. In questo senso esso è anche la dürftige Zeit hölderliniana, cioè il tempo della povertà essenziale che Heidegger interpretava come assenza di fondamento. Ed è per ciò che in questo tempo, in questa temperie, in questo tempo del declino e dello svuotamento dei valori, dell’assenza della politica popolare e sociale, il populismo, con la sua lingua viscerale, si propone come garante del benessere e della sicurezza. Esso garantisce il cibo e gli strumenti legali della legittima difesa. Ma come può, nel tempo della povertà, garantire il cibo ai cittadini che con i loro salari da fame fanno fatica ad arrivare a fine mese e che sono ridotti (per riprendere il titolo della poesia di Hölderlin in cui compare quella espressione) a pane e vino? Come può rassicurare i cittadini che, una volta separati, tagliato il cordone ombelicale, estraniati dalle istituzioni sociali, vengono, smartphone alla mano, abbandonati alla loro solitudine, rimanendo così impotenti e indifesi dinanzi ai pericoli e alle trappole che la stessa società impoverita deve approntare per sopravvivere? Come, se non con la simulazione, con la finzione, con la fiction?
E qui arriviamo alla questione che il testo di Revelli e di Telese ci ha suggerito, questione che avevamo cercato di affrontare già nel 2014 a seguito di un articolo di Elena Loewenthal apparso su «La Stampa» sull’ipertrofia gastronomica in tv. La domanda che ora, alla luce di quel testo, ci sentiamo di riproporre e di riformulare è la seguente: c’è qualche relazione tra quella che si può definire una vera e propria invasione gastronomica nei palinsesti di tutte le televisioni pubbliche e private, e il gastropopulismo con il suo linguaggio viscerale? Crediamo di sì. E questo legame è costituito proprio dalla fiction. Prima di esplicitare questo rapporto occorre però dire che per “linguaggio viscerale” non si deve intendere solo quello che riflette la semplice e duale logica delle viscere o dell’istinto, quella che, diremmo con Aristotele, risponde alle esigenze dell’anima nutritiva, ma anche quello che risente del disagio sociale e della relativa rabbia provata dagli individui isolati nel tempo dell’indigenza e che essi esprimono attraverso il turpiloquio. La logica duale che si manifesta attraverso il linguaggio viscerale è sostanzialmente il frutto di una condizione di turpitudine a cui gli individui atomizzati sono stati costretti a sopravvivere in totale esclusione, all’interno di uno dei tanti brandelli del tessuto sociale lacerato da una crisi ormai divenuta sistemica. Attraverso un meccanismo mimetico, per accattivarsi il consenso popolare i populisti imitano e fanno proprio il linguaggio turpe delle viscere. E ciò nello stesso modo in cui certi adulti, deboli nei confronti dei giovani, per farseli amici cercano di emularne gli atteggiamenti e il gergo. I populisti sfruttano così la “volgarizzazione” di un popolo ridotto a “volgo” dalla crisi che li costringe a un linguaggio “volgare”. È in effetti proprio questo inatteso “involgarimento” che aumenta la rabbia nella piccola e media borghesia proletarizzata (pp. 76, 77, 83). I segni di questa proletarizzazione non sono solo quelli che si evidenziano nella drammatica diminuzione del potere d’acquisto dei salari, ma soprattutto quelli che si riflettono vergognosamente nello stile di vita, nel modo di vestirsi, nel sentirsi ingabbiati in un presente odioso senza alcuna speranza per il proprio futuro e per quello dei propri figli, cioè dei giovani.
Difficile è adattarsi a questo nuovo genere di vita senza prospettive, a questo vivere alla giornata, al vano sopravvivere a se stessi cercando di difendersi dall’assordante eco del nulla che preme da tutte le parti. Proprio per questo, alla stessa stregua dei malati terminali, i disperati, gli umiliati e gli offesi si attaccano ad ogni cosa che possa dare loro anche solo l’illusione del benessere. Da qui la fiction. L’esigenza di una fiction in grado di assolvere diverse funzioni contemporaneamente. Non solo, ovviamente, la finzione politica offerta dai populisti. I quali possono conferire un senso alla vita dei disperati e degli esclusi proponendo sia l’assurda difesa di una impossibile sovranità nazionale sia una altrettanto insensata lotta contro Europa e gli europeisti considerati come nemici dei popoli, anche se questa battaglia neo-nazionalistica implica lo scivolamento istintivo nell’intolleranza e nel razzismo, e con esso anche una guerra dei nuovi poveri, dei neo-proletari, contro i più poveri, contro coloro che non si possono nemmeno definire “proletari”, perché non hanno più una propria prole, perduta forse in uno dei viaggi della disperazione per salvarsi dalla guerra e dalla violenza. All’interno della classe media impoverita, dei neo-proletari del terzo millennio, la paura e l’odio crescono nella misura in cui aumentano le probabilità di un loro ulteriore impoverimento, di un loro schiacciamento verso il basso, di una loro omologazione con gli esclusi, cioè verso quella condizione dalla quale essi si erano affrancati al costo di tanti sacrifici. All’interno di essa quella rabbia e quel timore aumentano con la graduale vanificazione dei loro sforzi e con l’inesorabile annientamento di loro stessi come persone. In breve: con la loro assimilazione agli ultimi della terra.
Ma proprio essi, questi ultimi, alla fine del primo decennio del terzo millennio, nel continente più sfruttato della terra, cominciavano a ribellarsi e a preparare una “primavera araba” partendo dalla rivoluzione dei “Gelsomini”. Era il 2010 e anche l’Italia era da qualche anno entrata nel tunnel senza fine della (ancora presente e viva) crisi economico-finanziaria, sebbene l’allora capo del governo continuasse a ripetere, con un irresponsabile sorriso sardonico, che sugli italiani in realtà risplendeva il sole dell’avvenire. Segno questo, tra l’altro, sottolinea acutamente Revelli, del fatto che i ricchi, proprio in questi anni, a differenza che in passato, cominciavano a perdere «addirittura la percezione del malessere altrui» (p. 68). Ebbene fu esattamente in coincidenza con queste rivolte in Maghreb che i canali televisivi italiani cominciarono a dare vita a quella ipertrofia gastronomica, ossia ad aumentare il tempo da dedicare a trasmissioni concentrate sulle delizie della cucina italiana e a diminuirlo ad altri programmi di varia cultura. Era il tempo (e ancora in parte lo è), per dirla con Luca Telese, in cui gli chef diventavano i nuovi maître à penser, sostituendo i maestri (p. 128). Era soprattutto il tempo in cui quella forza persuasiva del linguaggio viscerale, mutuato dal volgo e adottato allora da quel capo di governo, doveva essere tradotta anche sulla dimensione psicofisiologica della percezione, al fine di far prendere per vero ciò che invece era falso. Il potere ipnotico di quel linguaggio, per riprendere ancora un’espressione di Telese (p. 144), doveva essere necessariamente traslato sul cibo attraverso la fiction televisiva, e ciò allo scopo di “divertire” i volgari spettatori, nel preciso senso pascaliano di distogliere la loro attenzione da una possibile quanto improbabile imitazione delle rivolte arabe.
Da un lato, dunque, in virtù anche di una accorta “porno-fenomenologia culinaria”, quella ipertrofia gastronomica televisiva doveva servire a ipnotizzare e quindi a dissuadere il volgo italico da una possibile “rivoluzione italiana” contro l’evidente inettitudine di un governo i cui vizi avevano già superato i limiti della decenza, proprio come accadde nella corte francese di fine Settecento; dall’altro lato e contemporaneamente quel cibo così sfrontatamente mostrato doveva, per riprendere un’espressione di Franco Astengo, servire per anestetizzare il dolore sociale. Era dunque duplice la funzione dell’anestetizzazione sociale offerta dalla fiction televisiva. Oggi che in buona parte quelle rivolte arabe si sono placate e si sono con ciò stesso ridotte anche le tentazioni mimetiche degli italiani, le tv possono permettersi di allentare, sebbene non del tutto, la presa ipnotica attraverso il cibo e l’arte culinaria. Ora, infatti, anche solo in ragione del fatto che più che a modello da imitare i popoli africani in fuga vengono ormai percepiti come nemici da evitare o quanto meno da rispedire al loro paese, buona parte degli italiani impoveriti (diciamo all’incirca il 30%) si illude di poter fare una rivoluzione, e quindi di riscattarsi, affidandosi ai populisti, i quali, però, come si è visto, in quanto gastropopulisti, cioè cultori delle viscere e della lingua viscerale, ne sanno valorizzare solo il peggio e non il meglio.
Bello tosto il tuo intervento su questo gastropopulismo sollecitato dal libro di Revelli-Telese