La tesi che intendo sostenere in questo intervento è che la destrutturazione dei diritti sociali, oltre alla ovvia perdita dei diritti e all’impoverimento economico di chi la subisce, comporta anche una cessione di sovranità democratica. La perdita dei diritti, quanto meno di questa portata, come si è verificata in questi anni, comporta in sé, ontologicamente, un impoverimento della democrazia costituzionale, una perdita della sovranità popolare. Per sostenere questa tesi assumerò come paradigma la destrutturazione dei diritti nel mondo del lavoro, che è a mio avviso la più emblematica del nuovo ordine venutosi a costruire in questi anni.
Se noi tracciassimo su una ipotetica lavagna la linea evolutiva dei diritti nel mondo del lavoro nell’Italia del dopoguerra, disegneremmo una parabola che cresce con le grandi riforme degli anni ’60 e ’70. Sono gli anni delle prime leggi sui contratti a tempo determinato, che ne limitano l’utilizzo a casi straordinari e tassativamente indicati, gli anni delle prime leggi sui licenziamenti, anni che culminano nello Statuto dei lavoratori del maggio del 1970 (un documento che non prevede solo l’art. 18, ma stringenti diritti in materia di libertà dell’azione sindacale, divieti di discriminazione, e introduce forme di rappresentanza all’interno delle fabbriche). Questa parabola rimane ferma negli anni ’80, quando tuttavia i primi segnali dell’attacco che sarebbe stato sferrato negli anni successivi sono rilevabili sia nella vicenda della scala mobile e del referendum che ne conseguì, sia nei progetti della loggia massonica P2, che prevedeva tra i suoi punti programmatici molte delle riforme poi attuate negli anni successivi, tra le quali il ridimensionamento del ruolo e delle funzioni del sindacato.
Questa parabola si contrae decisamente e inizia a calare negli anni ’90 (con l’unica eccezione della legge Turco sui congedi parentali) e, in modo più drastico, negli ultimi 20 anni con una serie di tappe drammatiche in tema di diritti del lavoro: la legge Treu approvata dal centrosinistra, la legge Maroni (quella che viene impropriamente chiamata legge Biagi), la legge Brunetta in materia di pubblico impiego, il “collegato lavoro” (legge n. 183/2010) e poi i colpi finali, i più micidiali, sferrati dalla legge Fornero e dal Jobs act. Non bisogna essere dei politologi esperti per cogliere come queste riforme siano state approvate indistintamente sia da governi di centro destra che da governi di centro sinistra. Negli stessi anni veniva eliminata l’esenzione delle spese giudiziarie per le cause di lavoro, introducendo “marche da bollo” dal costo di centinaia di euro e veniva introdotta la condanna alle spese legali del lavoratore, configurando un vero e proprio ostacolo per censo all’accesso alla giustizia del lavoro: se si è ricchi si può fare causa, se si è subìto un torto e si è poveri non si può agire in giudizio perché le spese o la paura della condanna alle spese costituiscono un deterrente per gran parte dei lavoratori.
Il risultato di questa parabola è sotto gli occhi di tutti, un mercato dei contratti di lavoro che prevede una trentina di forme possibili di assunzione di cui una sola è quella stabile, e poi la mazzata finale del Jobs act in cui il lavoro stabile non esiste più.
Questa la prima parabola.
Ma negli stessi anni se ne descrive una seconda che cammina di pari passo, parallela. Parte un disegno di riforme più o meno con la medesima cadenza temporale, accomunate dall’esigenza della governabilità. Le elezioni servono a dare un governo al Paese, dice Romano Prodi, non a farne una fotografia. E quindi il Governo del Paese assurge a valore in sé, anche quando non corrisponde alla fotografia del Paese. Le tappe sono tante, non c’è il tempo qui per elencarle tutte. Abbiamo il maggioritario nelle sue diverse forme, che via via consente sempre di più a una minoranza, purché sia, di governare senza essere maggioranza (tra queste forme quella adottata per la legge regionale toscana è tra le peggiori). Abbiamo lo svuotamento sino allo svilimento della assemblee elettive (pensiamo al consiglio comunale o al Parlamento), l’eliminazione di ogni forma di rappresentanza in quelle che un tempo erano le Province e che esistono solo in quanto luoghi in cui gli eletti eleggono altri eletti, lo svilimento della funzione di consigliere comunale o di parlamentare (ridotti a pedine di un meccanismo che finisce con l’inceppare le procedure della rappresentanza politica, recise nella loro possibilità di trasmettere le istanze dei rappresentati nei luoghi dove siedono i rappresentanti), l’uso della fiducia e dei decreti legge e così via. Una lenta metamorfosi che incide sulle forme dello Stato democratico (Alessandra Algostino).
Ma è sotto il profilo culturale che le due parabole raggiungono il massimo della loro efficacia dirompente e in cui si intrecciano maggiormente (Tomaso Montanari e Francesco Pallante). La destrutturazione del mondo del lavoro ha causato un tale mutamento dell’asse degli equilibri di potere tra lavoratori e datori di lavoro da comportare un vero e proprio mutamento di mentalità. Il lavoratore polverizzato e isolato ha subìto un mutamento antropologico. È ormai forma mentis diffusa che non sia il caso di rivendicare i propri diritti, che sia meglio “lasciar perdere” per evitare ritorsioni. E purtroppo in gran parte è vero. E questa mentalità è ormai dominante. Lasciamo da parte pregevolissime esperienze di lotta ed eroici sindacalisti che pure continuano a esistere. Parlo della cultura dominante: una cultura della rassegnazione, dell’impotente consapevolezza che i rapporti di forza sono impari, accompagnata da una sfiducia nell’utilità dell’aggregazione, una scarsa credibilità dei soggetti collettivi, se non una vera e propria allergia, un disincanto per il meccanismo in sé della lotta comune, del mettersi insieme per un obiettivo condiviso di lotta. Per cui la mentalità dominante, quando non è quella della acquiescenza è, se mai, quella della lotta individuale, con il proprio avvocato, se segue strade legali o di qualche “conoscenza” se segue percorsi obliqui. Vi è un’osmosi continua, un’intrinseca comunione di intenti, una coesione ontologica, tra la cultura che ha fatto breccia nel mondo del lavoro fondata sulla sfiducia nelle azioni collettive di lotta, lo screditamento degli istituti della rappresentanza sindacale, la polverizzazione dei lavoratori in tante monadi in solitudine, il precariato come strumento per la desindacalizzazione o peggio per decretare l’impossibilità oggettiva di costruire un orizzonte collettivo di lotta comune e, dall’altro lato, la sfiducia negli strumenti della democrazia rappresentativa che si incarna nel calo continuo delle percentuali di partecipazione al voto, il leaderismo accentuato ed estremo, il voto utile, come se esprimere il nostro voto non dovesse essere solo e semplicemente scegliere coloro che meglio rappresentano le nostre idee ma individuare i “meno peggio” o quelli meno disastrosi, più efficaci nell’“arginare” l’avversario.
Questo è stato l’effetto culturale e antropologico di questi anni di riforme nel mondo del lavoro. Ma non cogliete anche voi i nessi tra questa cultura e quella che ha accompagnato l’impoverimento delle forme di rappresentanza democratica? Non era forse più funzionale avere quella polverizzazione del mondo del lavoro, quella distruzione di ogni cultura di lotta comune, per consentire il trionfo della cultura politica del leader, uomo solo al comando, che finalmente decide? Non vi è dietro queste due culture un tratto comune? Quello dell’allergia verso le regole che impediscono il libero governo, nel primo caso dell’economia, nel secondo della politica, la medesima allergia verso tutto ciò che, come è stato detto, è “democrazia del discorso” e non del “monosillabo”, l’allergia verso l’analisi della complessità? La cultura che intravede nelle assemblee elettive un intoppo a chi deve governare, che vede nella sovranità del Parlamento un impiccio alla governabilità che impone risposte semplici a problemi complessi. Bisognava descrivere il Parlamento come luogo di attaccati alla poltrona, inutili parassiti che sono solo un costo per poterne poi decretare il taglio.
Si poteva fare questa trasformazione della forma di Stato con un modo del lavoro ancora in grado di organizzarsi? Con un popolo che vede nelle lotte collettive una possibilità di contrastare chi è apparentemente più forte? No, non lo si poteva fare. La distruzione dei diritti sociali, oltre che funzionale a un sistema economico in cui la guerra di classe c’è stata ed è stata pure vinta, serviva anche a questo: a modificare la trama delle relazioni sociali, consentendo l’attacco alla sovranità popolare e democratica.
In questo clima, in questa evoluzione, non deve stupire se a Roma parlamentari e sindacalisti vengono tranquillamente manganellati dalle Forze dell’ordine in pieno giorno durante una manifestazione a difesa dei diritti dei lavoratori; non deve stupire, se a Prato altri sindacalisti ricevono il foglio di via; non deve stupire se il Prefetto di Siracusa vieta le manifestazioni perché a giugno inizia la stagione turistica e le manifestazioni recherebbe disagio a chi è in vacanza; non devono stupire soprattutto i due decreti sicurezza. Cosa altro sono i due decreti sicurezza di Salvini, se non il punto di approdo di questo disegno, di questo approccio, di questa cultura del potere, della cosa pubblica, del governo del Paese? I due decreti sicurezza costituiscono il braccio militare di quelle azioni di destrutturazione sociale. Direi quasi la logica conseguenza. Raggiunto l’obiettivo di una frammentazione dei poveri e della mancanza di ogni sbocco delle loro possibili rivendicazioni attraverso azioni collettive e democratiche, bisogna preoccuparsi della repressione di eventuali reazioni individuali. Ed è così che, ancora con una azione coerente che è figlia della stessa cultura, diventano contemporaneamente reato la solidarietà internazionale, la povertà e la marginalità. Questa è la cultura delle norme repressive del decreto sicurezza: la marginalità e la povertà vanno sanzionate, punite, o con il carcere o con l’allontanamento, fisico, dal fortino dei vincenti: se impedisci il libero accesso ai luoghi del turismo, vai fuori dalle mura cittadine. E pensate a quanto siano evocative e potenti queste immagini in cui i vincitori nemmeno si preoccupano più di tanto di svelare un disegno esplicito e dichiarato.
Ma se questo legame che ho cercato di tracciare in queste riflessioni esiste davvero, se effettivamente c’è stato un disegno precostituito o, quanto meno, una velenosa sinergia oggettiva tra riforme economiche e destrutturazione del potere democratico, virtuosa l’una per l’altra, ripensare la sinistra vuol dire anzitutto porre al centro dell’azione politica non solo una maggiore distribuzione delle ricchezze ma uno spostamento dell’asse del potere economico dal capitale all’uomo-donna/lavoratore-lavoratrice. Contemporaneamente, porre al centro la ricostruzione della partecipazione democratica, non avendo paura di sperimentare. Ricucire il legame con il nostro popolo vuol dire soprattutto essere consapevoli che la difficoltà principale che abbiamo, e anche questa è nostra responsabilità, è che il nostro popolo polverizzato è lontano da questi temi e che delle due parabole di cui ho parlato non ha alcuna consapevolezza.
Avviare una meticolosa e accurata azione di rovesciamento di entrambe le due parabole, comprese quelle culturali che ne sono sottese, un rovesciamento che cammini di pari passo, è il compito che abbiamo davanti.
Questo sarebbe giustamente il compito che dovremmo avere davanti !
Ma “abbiamo” chi ?! Io, te, lui, e pochi altri, ma veramente pochi, sciaguratamente … !
E allora, come fare ? Rinnovare la via del Brancaccio, allargando fisicamente il consenso sul territorio e non solo discettando sul web, a mio avviso.