Cambiare la Costituzione per normalizzare la giustizia

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Ripensando alle trame per pilotare la nomina dei vertici della magistratura emerse dall’indagine di Perugia e alla conseguente crisi di autorevolezza che ha investito il Consiglio Superiore della Magistratura, abbiamo segnalato che il modello di giudice che l’ordinamento politico preferisce è quello concepito dal filosofo inglese Francis Bacon, secondo il quale: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono» (vedi: I magistrati: leoni sotto il trono?). Alla luce dei numerosi scandali che imperversano in tutt’Italia per fatti di corruzione e altri reati derivanti da condotte di abuso dei poteri (pubblici o privati) è diventata più urgente l’esigenza di riportare i leoni sotto il trono.

Per realizzare questa esigenza, evidentemente in contrasto con la Costituzione, che ha prefigurato una divisione effettiva dei poteri, ci sono due strade e le vicende di questi giorni ci dimostrano che il potere politico le sta percorrendo tutte e due contemporaneamente.

La prima è quella di pilotare le nomine dei dirigenti, soprattutto per gli uffici di Procura, contrattandole con quegli esponenti delle correnti della magistratura più disponibili ad assecondare le ingerenze dei poteri forti nell’esercizio della giurisdizione, la seconda è quella di intimidire i magistrati che, nell’esercizio delle loro funzioni, non si lasciano condizionare dall’orientamento politico del governante di turno, facendosi scudo dell’indipendenza che la Costituzione ha assegnato direttamente a ogni singolo magistrato (vedi: Come ti intimidisco i giudici).

Da oltre due settimane le cronache si soffermano sulle trattative riservate che si sono svolte nel mese di maggio per pilotare le nomine di alcuni importanti uffici giudiziari come il Procuratore della Repubblica di Roma e quello di Perugia. Quello che viene taciuto è che i rimedi che bollono in pentola non puntano ad impedire la “politicizzazione” (cioè il controllo politico) delle nomine dei vertici degli uffici giudiziari, ma, al contrario ad accrescerla.

La pretesa, ricorrente dai tempi di Cossiga, di riportare nell’alveo dell’indirizzo politico di governo l’esercizio del potere giudiziario verrebbe definitivamente legittimata se venisse approvata la riforma costituzionale della giustizia attualmente in discussione alla Camera, intitolata “Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”. Con il pretesto della separazione delle carriere, la riforma occulta due modifiche importanti destinate a incidere profondamente sul modello costituzionale che presidia l’indipendenza dalla magistratura e l’eguaglianza dei cittadini: la variazione della composizione del Consiglio Superiore della Magistratura (che viene sdoppiato) e la rottura del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.

La Costituzione, a presidio della separazione dei poteri, prevede che (salvo i membri di diritto) i componenti del Csm siano eletti per due terzi dai magistrati e per un terzo dal Parlamento. La riforma prevede invece che la metà dei membri dei due Consigli sia di nomina politica, così aumentando la componente politica e diminuendo quella professionale. A completare il quadro della “politicizzazione” della giustizia l’articolo 112 modificato prevede che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale “nei casi e nei modi previsti dalla legge”. In questo modo l’esercizio del potere giudiziario verrebbe definitivamente addomesticato; le nomine dei vertici della magistratura sarebbero tutte pilotate dal potere politico che, complice una frangia di magistrati servizievoli, si impadronirebbe delle carriere dei magistrati; l’esercizio dell’azione penale sarebbe definitivamente assoggettato alle convenienze del governante di turno, esponendo i cittadini ad ogni genere di abusi.

Se ciò non bastasse, c’è sempre l’intimidazione per ricondurre i leoni sotto il trono. Come quella compiuta dal Ministro dell’interno che ha comunicato di aver messo sotto osservazione tre magistrati donne colpevoli aver assunto «posizioni in contrasto con le politiche del governo in materia di sicurezza, accoglienza e difesa dei confini». Nel giugno del 1925, Alfredo Rocco, ministro guardasigilli di Mussolini, intervenendo alla Camera dei deputati sulle vicende dell’ordine giudiziario, così si espresse: «La magistratura non deve fare politica di nessun genere. Non voglio che faccia politica governativa o fascista, ma esigo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista».  Dov’è la differenza?

Gli autori

Domenico Gallo

Domenico Gallo, magistrato è stato presidente di sezione della Corte di cassazione. Da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace, è stato senatore della Repubblica per una legislatura ed è componente del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale. Tra i suoi ultimi libri "Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia" (Edizioni Gruppo Abele, 2013), "Ventisei Madonne Nere" (Edizioni Delta tre, 2019) e "Il mondo che verrà" (edizioni Delta tre, 2022).

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