Il primo numero della neonata rivista Jacobin Italia si presenta con il titolo «Vivere in un Paese senza sinistra».
L’interessante articolo di David Broder affronta il tema provando a chiedersi se la situazione italiana sia un’anomalia o rientri nel quadro della crisi della sinistra europea. L’Italia avrebbe anticipato lo sbandamento generale perché la crisi dei partiti tradizionali è iniziata prima, già negli anni Novanta.
Vorremmo provare ad aggiungere qualche considerazione per contribuire ad approfondire l’argomento, che per noi italiani è sicuramente molto, molto importante.
La situazione italiana ci pare decisamente anomala: siamo l’unico Paese governato da una coalizione senza precedenti, fra un movimento che è cresciuto come antisistema, cavalcando molte tematiche ambientali e partecipative, e un partito cresciuto dentro il sistema, che assume sempre di più un profilo di destra estrema: il primo partner, senza una base organizzata e con un’agenda contraddittoria, sbanda ed è sempre più in difficoltà, il secondo si sta configurano come la vera forza di governo, imponendo la sua agenda razzista, xenofoba e violenta. Anche il confronto con l’Europa sui temi del deficit di bilancio, che pure potrebbe aver qualche buona ragione di esistere, è stato gestito con un atteggiamento di sfida fine a sé stesso.
Se tutto ciò è gravissimo, ancora più preoccupante è il fatto che questa politica può dispiegarsi nella totale assenza di qualunque forma di opposizione organizzata. E qui ci pare risieda la gravità dell’anomalia italiana. Se la crisi del Partito Democratico pare ormai irreversibile, frutto di una strategia che un commentatore imparziale potrebbe definire suicida, è la totale assenza della sinistra che fa del vuoto italiano un caso a sé. Come anche Broder ricorda, negli altri Paesi europei è presente una formazione che si richiama alla socialdemocrazia (solo in Francia e in Grecia i partiti socialisti sono in crisi drammatica e/o sono virtualmente scomparsi); alla loro sinistra sono emerse una o più organizzazioni radicali che esprimono una critica aperta alle politiche tradizionali della sinistra ma che contemporaneamente cercano il confronto (a volte aspro) con i socialisti moderati (solo in Inghilterra il confronto è all’interno delle varie anime del Labour Party).
La situazione italiana è radicalmente differente: nessuna forza politica può essere onestamente considerata socialdemocratica, e allo stesso tempo nessuna credibile organizzazione di sinistra è riuscita a emergere. Da questo punti di vista, lo scenario politico italiano richiama piuttosto quello dei Paesi dell’Europa orientale:
– Il vecchio Partito Comunista Italiano (PCI) è stato il più importante e potente dell’Europa occidentale; ma dopo il 1989 i suoi dirigenti hanno optato per l’abbandono totale e acritico della propria tradizione;
– Le organizzazioni politiche emerse dalla sua dissoluzione – PDS, DS, PD (quest’ultimo ha incorporato una parte consistente dello storico e potentissimo partito di centro, la Democrazia Cristiana) – hanno distrutto tutti i legami con le classi lavoratrici e popolari, facendo propria un’agenda univocamente neoliberista, senza peraltro proporre un’analisi delle ragioni del collasso dell’URSS e del fallimento del socialismo reale, dei suoi errori e dei suoi crimini;
– Il PD non è mai stato un partito di sinistra, anche adottando una definizione molto ampia. Anche se continua a definirsi di “centro-sinistra”, le sue scelte politiche, negli anni in cui ha controllato il governo (direttamente o indirettamente) hanno comportato un attacco frontale ai diritti dei lavoratori e al Welfare State, in una parodia tardiva della “terza via” di Blair-Schroeder (peraltro oggi rifiutata o comunque criticata da quasi tutti i partiti socialisti europei). D’altra parte, questo vuoto non è stato riempito dalla comparsa di forze credibili alla sua sinistra: i piccoli e minuscoli partitini della sinistra radicale hanno perseguito, dalla fine degli anni Settanta, un atteggiamento settario e hanno perso praticamente tutti i legami con i settori sociali e con la classe lavoratrice tradizionali, senza riuscire a stabilire un reale contatto con gli attori sociali emergenti (working poors, flexworkes, ecc.). Hanno ciecamente perseguito una strategia puramente istituzionale (quello che conta è essere eletti da qualche parte) ed è probabile che abbiano ormai perso l’ultimo treno.
Quali le ragioni di questo esito drammatico, in un Paese che vantava la più forte e organizzata presenza della sinistra in Europa? Una possibile spiegazione (probabilmente non l’unica) è che questa forza storica è proprio quella che ha condannato la sinistra italiana. L’idea che l’ampia base di consenso, conquistata dagli anni Quaranta ai Settanta, in un contesto nazionale e internazionale radicalmente differente, potesse rappresentare un bonus di fidelizzazione garantito, da poter spendere anche in uno scenario drammaticamente mutato non è stata appannaggio solamente dei due partiti di massa italiani, PCI e DC. Anche quel che resta della sinistra è solo un ceto politico parassitario che pensa di poter sopravvivere campando sulle rovine della tradizione della sinistra. L’ultima testimonianza di quel passato glorioso è la Costituzione repubblicana del 1948. Non a caso, qualcuno ha provato a demolirla, ma è stato fermato dal voto popolare nel Referendum del 2016 e non a caso chi ci ha provato era proprio il PD. Questo tentativo ha comunque provocato un forte malessere e un’estesa disaffezione nella storica base elettorale della sinistra, con un drammatico calo delle percentuali di votanti nelle tradizionali basi della sinistra (in molte città dell’Emilia Romagna, ad esempio, l’astensione ha spesso superato il 60%).
Ma una ragione più strutturale è che l’Italia non ha mai sperimentato la presenza di una organizzazione laburista (all’inglese) né di un partito socialdemocratico ideologicamente strutturato (come in Germania o nell’Europa del Nord). Il PCI del dopoguerra si strutturò come organizzazione politica e solo in misura minore come espressione di una sinistra sociale che era per altro stata distrutta durante il ventennio fascista; e questo avvenne in un Paese in cui, dopo la II Guerra mondiale e la lotta di liberazione, le istituzioni dello Stato non furono (e non sono) mai state completamente de-fascistizzate e democratizzate, a differenza di quanto è avvenuto in altri Paesi europei, in cui la socialdemocrazia è nata come rappresentanza politica di vaste organizzazioni sociali e ha potuto crescere in presenza di Stati nazionali democratici.
Si può aggiungere che anche le forze emerse alla sinistra del vecchio PCI e che successivamente hanno tentato, senza riuscirci, di riempire il vuoto lasciato dalla capriola liberista dei suoi eredi, hanno condiviso con il fratello maggiore la stessa visione statalista, l’incapacità di critica e autocritica sul passato e le deboli radici nel lavoro di massa: gridavano più forte, ma con lo stesso quadro concettuale di chi criticavano.
L’anomalia italiana è reale, secondo noi, ma indica anche che le ricette classiche che nei “Trenta gloriosi” hanno consentito alle socialdemocrazie di ottenere rilevanti conquiste in termini di diritti dei lavoratori sono state messe profondamente in crisi dalla ripresa di egemonia degli spiriti animali del capitalismo. Basteranno le vecchie ricette, rivitalizzate da un po’ di radicalismo, ad affrontare la sfida? E quale sarà il terreno su cui sviluppare la difesa e (chissà) la controffensiva? Gli Stati nazionali potranno avere ancora un ruolo?
Ancora una considerazione conclusiva. In tutta Europa stanno riemergendo tendenze sovraniste “di sinistra” (Mélenchon in Francia, gli scissionisti della Linke in Germania); anche in Italia molti sembrano voler imboccare questa strada come l’Associazione “Patria e Costituzione” promossa recentemente da Fassina e D’Attorre. A noi pare che se questo tentativo di ritorno alla nazione sia discutibile in generale, sia particolarmente pericoloso in Italia, dove, come abbiamo detto sopra, è mancata una reale democratizzazione dello Stato e siamo in assenza di una qualunque credibile forza organizzata della sinistra, sia essa moderata o radicale. L’appello alla chiusura dentro le proprie frontiere può essere raccolto solo dalla destra, che è ben attrezzata su questo terreno.