Nel giugno del 2007, a seguito di due anni di ricerche indipendenti che conducemmo presso l’Accademia dei Lincei sugli esiti deleteri delle privatizzazioni in Italia, il Ministro guardasigilli dell’ultimo Governo Prodi, Clemente Mastella, ricevette Stefano Rodotà, Edoardo Reviglio e il sottoscritto per comunicarci che aveva accettato la nostra proposta di istituire una Commissione ministeriale per la riscrittura delle regole del Codice civile in materia di proprietà pubblica.
Pochi mesi prima avevamo affidato i risultati di quelle ricerche a un volume (Mattei – Reviglio – Rodotà, Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Il Mulino, 2007) che raccoglieva gli atti di un convegno presso l’Accademia in cui l’idea aveva preso piede.
Quella che divenne nota come Commissione Rodotà fu immediatamente convocata e svolse i suoi lavori in via Arenula, incontrandosi a cadenza settimanale, fino al marzo del 2008. Ne fecero parte fra gli altri, Antonio Gambaro, Luca Nivarra, Marco d’Alberti, Mauro Renna, Daniela Di Sabato, Paolo Piccoli, Alfonso Amatucci. I lavori vennero seguiti con impeccabile professionalità dal compianto Gianfranco Manzo all’epoca responsabile dell’Ufficio legislativo del Ministero. Nel mese di febbraio del 2008 quando il testo di disegno di legge delega era sostanzialmente pronto, il Guardasigilli si dimise e poco dopo entrò in crisi il Governo. Nello stesso mese Napolitano sciolse le Camere.
I risultati del nostro lavoro furono perciò consegnati nel tardo aprile al nuovo Ministro ad interim Luigi Scotti in un nuovo Convegno all’Accademia dei Lincei fortemente voluto dall’allora presidente Giovanni Conso.
Il successivo Governo Berlusconi ignorò completamente il testo che sarebbe rimasto nel cassetto se non fosse intervenuta una proposta di legge di iniziativa Regione Piemonte, introdotta da due consiglieri, Roberto Placido e Giampiero Leo, che ne ottennero addirittura l’approvazione all’unanimità. Il disegno di legge Rodotà venne così incardinato in Senato il 18 novembre del 2009 proprio lo stesso giorno in cui la Camera convertiva con voto di fiducia il cd. decreto Ronchi sulla privatizzazione dei servizi pubblici incluso quello idrico.
Poiché nell’elenco dei beni comuni redatto per la prima volta dalla Commissione Rodotà l’acqua risultava in posizione preminente, la schizofrenia parlamentare andata in onda quel giorno (mentre in Senato si presenta una riforma di tutela dei beni pubblici e comuni alla Camera si privatizza il tutto!) ci lasciò sgomenti. Con Alberto Lucarelli, Stefano Rodotà e Luca Nivarra (tutti ex componenti della Commissione Rodotà) decidemmo che la sola via rimasta era il referendum. Ci trovammo per redigere i quesiti (tre nell’impianto originale), demmo vita a un primo comitato referendario, ottenemmo il supporto politico, logistico e organizzativo del Forum italiano per il movimento dell’acqua e il resto è storia nota.
Il 13 giugno del 2011, quando si contarono i voti, ben 27 milioni di italiani avevano risposto Sì ai due quesiti referendari sopravvissuti al vaglio della Corte costituzionale fra i tre dell’intero impianto che avevano tutti raccolto oltre un milione e mezzo di firme. Il servizio idrico integrato e gli altri servizi non sarebbero andati a gara entro la fine di quell’anno. In corner avevamo sventato una nuova svendita da 200 o 250 miliardi!
Naturalmente, la reazione dei poteri dominanti (vertici del PD in primis), che già avevano la bava alla bocca per il nuovo saccheggio evitato dal popolo sovrano fu violentissima. A tutti noi fecero pagare in qualche modo un caro prezzo. A Stefano probabilmente l’impegno nel movimento per i beni comuni costò l’elezione a Presidente della Repubblica. Anche Berlusconi, che non aveva dimostrato sufficiente forza agli occhi delle cancellerie europee e dei poteri forti (il suo tentativo dopo sole otto settimane, complice Napolitano, di cancellare l’esito referendario riuscimmo a sconfiggerlo in Corte costituzionale) venne cacciato a novembre.
Nessun tentativo onesto di dare seguito normativo o istituzionale alla volontà popolare fu mai tentato ma i beni comuni seppero conquistarsi un importante ruolo “costituente” almeno fino al 2014 ispirando lotte sociali e occupazioni.
Oggi proviamo a ripartire non soltanto per dar seguito alla volontà popolare tradita ma anche per provare finalmente a svolgere qualche passo nell’attuazione della nostra Costituzione economica.
Infatti, checché ne dica una certa dottrina anche autorevole prigioniera però di un dualismo di matrice liberale superato dal compromesso fra Togliatti e Dossetti in Costituente, il nostro apparato normativo fondamentale è di notevole complessità. La Costituzione prevede all’art. 42 che «la proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati». Il successivo art. 43 specifica che, nel caso di «preminente interesse generale», le «comunità di lavoratori o utenti» possono vedersi riservata, la proprietà di determinati beni necessari per svolgere «servizi pubblici essenziali» nel campo delle energie o dei monopoli. Esistono dunque tre soggetti proprietari: a) i privati, b) lo Stato e i suoi enti pubblici, c) le comunità di utenti e lavoratori. Questa tripartizione, essenziale per garantire costituzionalmente un vero stato sociale, costituiva una rottura teorica dei nostri costituenti rispetto alla tradizionale bipartizione moderna, giacobina e liberale, per cui “il pubblico” e “il privato”, rispettivamente traduzione giuridica di Stato e mercato, costituiscono gli unici due poli della organizzazione sociale.
Durante la campagna referendaria del 2011 ci rendemmo subito conto di come, a dispetto della scelta costituzionale, l’antica bipartizione si fosse radicata non certo a favore del pubblico. La tipica domanda che ci si sentiva rivolgere era la seguente: «Vi opponete alla privatizzazione del servizio idrico? Ma siete matti a volere la gestione della rete idrica nelle mani del carrozzone pubblico corrotto e partitocratico!». Ci volle qualche mese di campagna per spiegare che esisteva una terza via, costituzionale, che era stata elaborata pochi anni prima dalla cd. Commissione Rodotà. Fra il pubblico e il privato esiste la possibilità dei beni comuni, priva di fini di lucro, collettiva, partecipata, ecologica e nell’interesse delle generazioni future.
Il disegno di legge delega della Commissione Rodotà non generò soltanto la grammatica teorica che consentì di articolare politicamente i beni comuni, vincendo il referendum contro il decreto Ronchi. Esso determinò pure importanti decisioni della Corte di cassazione, un dibattito accademico sui beni pubblici in cui la cultura giuridica italiana tornò alla ribalta internazionale, nonché tanti statuti e regolamenti comunali che incorporarono la nozione. Soprattutto essa ispirò centinaia di conflitti sociali determinati dal desiderio di un buon governo del territorio, lontano dalla logica estrattiva neoliberale, alcuni molto noti altri meno.
Durante i lavori, oltre ai più noti beni comuni, si dettarono i principi fondamentali per tutelare l’interesse pubblico in tre tipologie giuridiche attuative del disegno costituzionale. La legge delega Rodotà contiene i principi per i beni sovrani ad appartenenza pubblica necessaria, fra cui le grandi reti strategiche (autostrade ecc.) che sono essenziali per una qualunque forma di sovranità dello Stato e che non vanno gestiti con logica privatistica (negli Stati Uniti per esempio, Stato sovrano non sociale, le autostrade sono gestite direttamente dal pubblico). Da questi si distinguono i beni pubblici sociali, quelli necessari per un progetto di welfare pubblico (scuole, asili, ospedali…), nonché i beni pubblici fruttiferi, quelli che il pubblico usa per finanziarsi e può gestire con logica di mercato. Questo articolato disegno è essenziale per proteggere il patrimonio pubblico da privatizzazioni selvagge, quali quelle che, nei primi anni Novanta, per “entrare in Europa” ridussero il nostro partimonio pubblico di 130 miliardi di euro almeno e che ce ne avrebbero fatti perdere ancora di più se non avessimo vinto il referendum del 2011!
Il Parlamento italiano in 10 anni non ha mai discusso la proposta perché, ovviamente; il ceto politico ama comportarsi da proprietario privato rispetto ai beni pubblici.
Il 30 novembre di 10 anni dopo proviamo a ripartire. Ora, come 10 anni fa, con un Convegno di discussione scientifica all’Accademia dei Lincei. Ora, a differenza di allora, in cui con Stefano ci illudemmo di poter convincere “il palazzo”, decisi a far pronunciare prima il Paese raccogliendo le firme per presentare il disegno di legge come proposta popolare. Seguirà la raccolta di firme. Ne servono 50.000 ma contiamo di raccoglierne molte di più. Speriamo di far rinascere nel Paese, attraverso la costituzione di decine di comitati popolari per la difesa dei beni comuni, quello spirito referendario che ci fece vincere nel 2011. Occorre spiegare all’Italia che disastri come il Ponte Morandi o le devastazioni territoriali potrebbero essere prevenuti con buone regole giuridiche.
Per adesioni: www.benicomunisovrani.it