Già negli ultimissimi giorni del Governo Gentiloni, e ancor più decisamente con il Governo Conte alcune regioni del Nord d’Italia (Veneto, Lombardia ed Emilia) hanno avviato in sordina (e a Camere chiuse!) un processo di regionalizzazione della scuola, dell’università e della ricerca che la revisione costituzionale “regionalista” del 2001 già aveva reso possibile.
I gravi pericoli insiti in questo vero e proprio processo di secessione sono stati già segnalati da più parti: Francesco Pallante in Verso una secessione delle regioni ricche? ha posto in evidenza gli aberranti ed anticostituzionali aspetti fiscali impliciti in questa svolta destinata ad accentuare pesantemente gli squilibri territoriali attraverso l’eliminazione di ogni logica compensativa; Domenico Gallo in La secessione attraverso la scuola ha sottolineato il grave vulnus che la regionalizzazione dell’educazione e della ricerca comporta sul piano della “produzione” della cittadinanza, della sovranità, dell’uguaglianza e della partecipazione effettiva «all’organizzazione politica economica e sociale del Paese, così come richiede l’art. 3, comma 2, della Costituzione».
Condivido le loro preoccupazioni, e vorrei affrontare il problema da un punto di vista psico-sociale, cercando di porre in evidenza i rischi che su questo piano derivano dalla regionalizzazione della scuola.
Innanzitutto la regionalizzazione comporta una riduzione della scuola a istituzione regionale. Ora, abituati come siamo a considerare da sempre la scuola come una entità statuale, siamo a prima vista portati a non far caso agli slittamenti di significato che sono impliciti nel circoscriverla all’interno di un ambito più ristretto qual è quello regionale.
Ma se solo usciamo dalla pigrizia cui ci conduce la visione abituale della scuola ecco che la sua riduzione a istituzione regionale comincia ad apparirci come sede di più che probabili slittamenti, indotti dalle nuove leggi e dai nuovi regolamenti regionali, dal loro concreto rapporto con leggi e regolamenti nazionali, e dall’impatto più o meno conflittuale che essi avranno sui docenti e sull’amministrazione scolastica da una parte e sulle famiglie e sulla società dall’altra. Slittamenti destinati a incidere più o meno profondamente sulla ri-definizione di quel luogo chiamato classe, di quel tempo chiamato orario delle lezioni e, soprattutto, di quel campo fatto di contenuti e metodi, di pedagogia e didattica, di materie e di procedure, a seconda di come leggi e regolamenti (regionali e nazionali) saranno tradotti nella pratica di tutti i giorni dai docenti, dall’amministrazione scolastica e dalle famiglie. Certo è che il fatto che si miri, da una parte, a una nuova e più egoistica fiscalità e dall’altra a un reclutamento su base regionale (come è già stato tentato in Trentino) lascia pensare al peggio: e cioè, come dice Domenico Gallo, alla perdita, da parte della scuola, di quella funzione pubblica che, come la difesa e la la giustizia, ne fanno un servizio che «non può essere gestito in sede locale dalle comunità che ne usufruiscono».
In secondo luogo ‒ e questo è forse l’elemento più preoccupante che è implicito in questo progetto – in due delle sue regioni promotrici la propensione alla regionalizzazione della scuola si sposa pericolosissimamente con la presenza di pulsioni xenofobe, e a ben vedere anche antimeridionali, se è vero che fra i propositi che sono alla base della regionalizzazione della docenza ci sarebbe anche quello di ergere una specie di cordone sanitario contro i docenti meridionali che finora hanno trovato spazio nelle scuole del nord. Ciò è destinato a incidere profondamente su vari piani.
Ma andiamo con ordine. È noto che ci sono almeno quattro momenti in cui il migrante in età evolutiva si ritrova più esposto del suo coetaneo autoctono a un rischio sul piano del proprio equilibrio psichico. Quattro momenti che rappresentano i quattro passaggi decisivi che conducono all’età adulta: il processo parto-nascita, l’ingresso in scuola elementare, il passaggio dalla fanciullezza alla preadolescenza, e infine quello che conduce il giovane dal sogno megalomanico adolescenziale al concreto progetto adulto. Come è possibile vedere, ben tre di questi quattro passaggi hanno a che fare con la scuola; e precisamente col tipo di investimento che la scuola in generale fa in rappresentanza della società; e i docenti fanno giornalmente in base alla loro capacità e della loro propensione a riconoscere, tarare e valorizzare le vocazioni dei propri discenti. Vale a dire sul piano della selezione! Soprattutto se i docenti autoctoni fossero disposti, o fossero posti ‒ ad es. in base ai poteri che la “buona scuola” assegna ai dirigenti ‒ nella condizione di operare una sorta di selezione su base etnica, destinata a indurre ulteriori odiose compartimentazioni sul piano sociale e lavorativo. Penso risultino chiare le conseguenze che una selezione su base etnica può avere sulla società attraverso l’inibizione non solo di ogni tentativo di meticciato sociale e culturale, ma anche di ogni proposito d’integrazione.
C’è da dire che, fortunatamente, il progetto di regionalizzazione della scuola non poggia su un sistema omogeneo capace di rendere marginale qualsiasi alternativa, poiché sia il corpo docente, sia le famiglie, sia rilevanti strati della società hanno finora mostrato anche in queste tre regioni un alto grado di resistenza ai vari tentativi di compartimentazione della scuola e della società su base etnica. I docenti continuando maggioritariamente a rispecchiarsi nei discenti altri così come fanno con quelli autoctoni ed a svolgere efficacemente quell’opera di affiliazione dei migranti alla nuova società che li accoglie, che finora è stata la caratteristica distintiva della scuola italiana. Le famiglie e ampi strati della società mostrando di possedere ancora poderosi anticorpi nei confronti delle prevaricazioni razziste: la recente risposta di una parte considerevole dei cittadini lodigiani alle angherie dell’amministrazione leghista sta a dimostrarlo. E anche gli studenti si stanno muovendo in scuola e in piazza (Milano!) in totale discrasia con gl’indirizzi delle tre regioni “secessioniste”.
Quali sono allora gli elementi che spingono in direzione opposta?
Innanzitutto il fatto che, mentre questi strati della società sono privi di rappresentanza, quelli resi “incivili” e razzisti dalla crisi che sta distruggendo il tessuto produttivo del Nord invece ce l’hanno, e vengono da essa sempre più aizzati contro l’altro: contro qualsiasi altro, la cui umanità viene in questo modo denegata.
In secondo luogo la prevedibile formazione di una burocrazia regionale preposta alla definizione dei contorni (e dei finanziamenti!) di questa scuola regionalizzata che cercherà di autoperpetuarsi e di espandersi, come da tempo fa in ogni regione la burocrazia della sanità, e come è stato reso possibile in base al principio sancito nella revisione costituzionale del 2001 che ogni ritorno indietro sul piano normativo dovrà passare per l’assenso delle regioni che abbiano intrapreso la strada della regionalizzazione.
Infine il fatto che, se questo “decentramento” dovesse passare portando con sé i principi della Buona Scuola, che mirano a minare la libertà d’insegnamento, questo potrebbe prima o poi fiaccare la resistenza dei docenti che, privi dei legami di colleganza con i docenti del resto d’Italia, potrebbero capitolare. O meglio: essere costretti a capitolare.