Il governatore del Piemonte Chiamparino invoca un referendum consultivo (non si sa bene tra chi…) sulla linea ferroviaria Torino-Lione e, in immediata e spontanea sintonia, Fratelli d’Italia inizia una raccolta di firme. È l’occasione per un po’ di storia, sui referendum che si celebrano e su quelli che, pur dovendosi celebrare, non si celebreranno mai.
Questa che vi racconto è una storia esemplare di come funziona la democrazia nel nostro paese quando ci sono degli interessi da difendere, e cioè quasi sempre.
Nella primavera-estate del 1987 in Piemonte vengono raccolte circa 60.000 firme in calce alla richiesta di un referendum regionale che chiede l’abrogazione di alcuni articoli della legge regionale n. 60/1979, la normativa allora vigente in materia di caccia. In pratica, se il referendum passasse la caccia verrebbe quasi totalmente abolita sul territorio piemontese.
Nel 1988 la Regione Piemonte (giunta di centro-sinistra) dichiara la richiesta ammissibile, ma, subito dopo, vara una nuova normativa, la legge regionale n. 22/1988, e, conseguentemente, dichiara, con decreto la cessazione delle operazioni referendarie, essendo mutata la norma oggetto di consultazione. Peccato però che la nuova legge recepisca solo in minima parte le richieste del quesito referendario e non certo le più qualificanti (ad esempio le specie cacciabili sono ancora 29, a fronte delle 4 previste dal quesito; è possibile cacciare di domenica, in contrasto con la richiesta del Comitato promotore; è possibile cacciare su terreno innevato, sempre in contrato con le istanze del Comitato e via seguitando).
Il Comitato promotore – dopo aver ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale che si dichiara incompetente ‒ inizia allora una battaglia legale che transita attraverso tre gradi di giudizio davanti al giudice ordinario e che dura dal 1999 al 2002. Il Tribunale di Torino rigetta la domanda del Comitato. La Corte d’appello di Torino invece, in riforma del primo grado, annulla il decreto regionale in quanto in esso non vi è una comparazione tra la nuova legge e quella precedente e pertanto non è possibile valutare se le istanze dei promotori siano state accolte o meno. La Corte di cassazione rigetta il ricorso della Regione e, pertanto, conferma il disposto della pronuncia della Corte d’appello.
La Regione (giunta di centro-destra), allora, nomina una Commissione di esperti affinché questa valuti se la nuova disciplina abbia o meno recepito le istanze referendarie. La Commissione incredibilmente conclude i suoi lavori con esito positivo!
Con conseguente nuovo decreto, la Regione reitera l’annullamento delle operazioni referendarie.
Il Comitato – dopo aver di nuovo fatto ricorso alla giustizia amministrativa senza esito – nel 2006 inizia un nuovo giudizio davanti al Tribunale di Torino per ottenere l’annullamento del nuovo decreto. Il 5 settembre 2008 il Tribunale accoglie le istanze dei promotori del referendum e riconosce il pieno diritto alla prosecuzione del processo referendario. La Regione (giunta di sinistra) appella la sentenza. Il 29 dicembre 2010 la Corte d’appello respinge il gravame presentato dalla Regione Piemonte contro la sentenza di primo grado e ribadisce la legittimità della richiesta referendaria. La Regione Piemonte (giunta di centro-destra) non ricorre in Cassazione.
A questo punto il referendum si dovrebbe finalmente celebrare sulla nuova legge. Per evitare che si raggiunga il quorum, astutamente (!) la giunta individua per la celebrazione la data di domenica 3 giugno 2012 (il 2 giugno è festa), quando il 6 maggio si tiene una tornata amministrativa e le date dovrebbero coincidere, per evitare di sprecare denaro pubblico. Ma cosa volete che gliene freghi ai governanti di sprecare denaro che non è loro…
Ma ecco che, per evitare spiacevoli sorprese, ai primi di maggio, il Consiglio Regionale, su proposta dell’assessore leghista Sacchetto (in pieno accordo con il presidente Cota), approva un emendamento alla legge finanziaria, in virtù del quale viene abrogata la legge regionale sulla caccia. In questo modo, il referendum non si celebrerà più, visto che riguarda una legge non più in vigore. In Piemonte varrà la legge quadro, meno restrittiva di quella che era la legge piemontese.
Sono trascorsi sei anni da allora, ma la ferita brucia ancora, su di me, che seguii da vicino tutta la vicenda, e su chi ha raccolto le firme. Personalmente, quando i nostri politici si riempiono la bocca con la parola “democrazia”, oramai mi viene da sorridere.
Questo è quello che è successo in Piemonte, ma sarebbe potuto accadere in qualsiasi altra regione e con qualsiasi giunta, di sinistra o di destra. In fondo, siamo in Italia.
Qualcuno poi si può chiedere come mai io tiri fuori questa storia a distanza di sei anni da quando la vicenda si è conclusa. Il perché sta nel mio desiderio che sempre più persone la conoscano. Continuerò a parlarne negli anni a venire, dovunque mi capiti perché non se ne perda la memoria.