C’è una cattiva notizia che non compare nei telegiornali perché la politica la tiene rigorosamente riservata, quando, al contrario, dovrebbe diventare oggetto di un dibattito vivacissimo prima che sia troppo tardi e vengano compiute scelte irreversibili.
Tutto è iniziato con i referendum leghisti svoltisi in Lombardia e nel Veneto nell’ottobre del 2017 con i quali le due Regioni hanno attivato l’iniziativa, ai sensi dell’art. 116 della Costituzione, per ottenere l’attribuzione di maggiore autonomia nelle materie (23) riservate alla legislazione concorrente. All’iniziativa si è aggiunta la Regione Emilia Romagna.
Per essere più chiari la prospettiva è quella di giungere a una regionalizzazione completa in settori fondamentali come l’istruzione, l’università e la ricerca, la sanità (su cui si può vedere Verso una secessione delle regioni ricche? di Francesco Pallante), le reti di trasporto e di comunicazione, la previdenza complementare e integrativa, la tutela e la sicurezza del lavoro, il governo del territorio e altro ancora.
Dopo il referendum, il Governo Gentiloni – in articulo mortis – a poche settimane dal voto del 4 marzo, stipulò un accordo preliminare con le tre regioni. Con l’avvento del nuovo Governo, la prospettiva non si è arenata ma ha fatto un balzo in avanti. Il contratto di governo specifica l’obiettivo di portare a «rapida conclusione le trattative già aperte tra Governo e Regioni» per l’attribuzione di maggiori funzioni, con le «risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse».
Le trattative fra il Governo e le tre Regioni interessate sono portate avanti dalla ministra leghista Erika Stefani. Le trattative sono a buon punto, come ci ha informato Salvini (Repubblica, 30 agosto) che non vede l’ora di firmare l’accordo con le Regioni e tradurlo in legge. Per essere valido l’accordo deve essere approvato dal Parlamento con legge a maggioranza assoluta; una volta approvata la legge sarà difficilissimo tornare indietro, anche se cambiasse la compagine politica, perché occorrerebbe il consenso delle Regioni interessate.
Adesso stanno cominciando a venir fuori gli scenari che emergono dal fumo delle trattative riservate. Quello più inquietante riguarda la regionalizzazione della scuola pubblica.
Se c’è un bene pubblico che non può essere frazionato e sottoposto a logiche localistiche questo è il bene pubblico dell’istruzione. Se c’è un’istituzione che non può essere divisa o spezzettata questa è la scuola pubblica. La scuola, anche se rende un servizio al pubblico, non è un servizio pubblico che può essere gestito in sede locale dalle comunità che ne usufruiscono, bensì una funzione pubblica, come la difesa, come la giustizia. Ciò ha fatto dire a Calamandrei che «la scuola è un organo costituzionale, ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quegli organi che formano la Costituzione».
La sua funzione è fondamentalmente quella di produrre la cittadinanza, di dare la parola a tutti perché tutti possano divenire sovrani, di rompere il muro delle diseguaglianze dando a ciascuno gli strumenti formativi e culturali, la lingua appunto, per consentirgli di partecipare, in condizioni di parità, all’organizzazione politica economica e sociale del Paese, così come richiede l’art. 3, comma 2, della Costituzione.
La scuola, pertanto, è una funzione pubblica. Essa costituisce un’istituzione, anzi la principale istituzione della cittadinanza e dell’eguaglianza. Poiché costruisce la cittadinanza, formando i cittadini, la scuola è anche la principale funzione pubblica che garantisce l’unità del Paese. Se si vuole avviare una secessione delle Regioni del Nord, il primo passo è quello di spezzettare la scuola pubblica e introdurre livelli differenziati nell’istruzione per aree geografiche a cui seguirà una narrazione differenziata della nostra vita come comunità politica e una declinazione differenziata dei diritti fondamentali, come insegnano le esperienze pilota delle scuole di Adro e di Lodi.
«Qui si fa l’Italia o si muore», è il celebre aforisma attribuito a Garibaldi dallo scrittore Giuseppe Cesare Abba. Oggi, alla luce degli intendimenti leghisti si potrebbe declinare al contrario: «qui o si disfa l’Italia o si muore».