Un profilo rilevante delle crescenti diseguaglianze economiche e sociali in Italia è la loro “territorializzazione”.
Un dato per tutti: l’aspettativa di vita alla nascita variava, nel 2015, da 83,5 anni per gli abitanti della Provincia autonoma di Trento a 80,5 anni per i residenti nella Regione Campania (una divaricazione che è andata aumentando negli anni più recenti). Il dato è particolarmente significativo, perché gli studi dimostrano la sua stretta correlazione con il tenore di vita, le prestazioni sociali ricevute, la salubrità dell’ambiente, il livello di istruzione (i laureati possono sperare di vivere cinque anni in più di coloro che hanno interrotto il proprio percorso di studi prima della licenza media): indicatori anch’essi molto differenziati tra il Nord e il Sud dell’Italia.
Fino a pochi anni fa la polarizzazione all’interno del Paese era assai meno marcata. Secondo il presidente dell’Istituto superiore di sanità, ancora nel 2001 «l’aspettativa di vita era più alta al Sud, mentre oggi il Meridione ha di molto indietreggiato» (dichiarazione rilasciata in occasione della presentazione del rapporto Osservasalute 2016). In analoga prospettiva, gli studi dell’OCSE (l’ultimo è dell’aprile 2018) certificano che l’Italia è uno dei Paesi in cui la diseguaglianza, sempre territorialmente connotata, è aumentata a partire dagli anni Novanta del Novecento. Il risultato è che l’arretratezza del Mezzogiorno è tale, ormai, che alcune sue zone sono censite tra le più arretrate dell’intera Europa.
Si può supporre che la revisione costituzionale “regionalista” del 2001 (la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione) abbia avuto un ruolo nell’aggravarsi del fenomeno, anche se non è facile argomentare conclusivamente sul punto. Quel che è certo è che la regionalizzazione non ha contribuito alla riduzione del divario esistente, come invece alcuni dei suoi sostenitori ritenevano sarebbe accaduto in forza della irrealistica convinzione che la razionalità degli elettori avrebbe prodotto una selezione in positivo degli amministratori locali o che avrebbe comunque consentito a ciascuna realtà regionale di far fronte, con la necessaria flessibilità, alle peculiarità delle proprie condizioni.
A fronte del mancato inveramento di tali ottimistiche previsioni, stupisce che analoghi argomenti – consentire alle regioni arretrate di colmare più agevolmente il divario che le separa dalle altre – riemergano oggi a sostegno delle proposte sul regionalismo differenziato, istituto costituzionale che, se realizzato, comporterebbe l’attribuzione di ulteriori competenze alle regioni che decidessero di attivare la procedura prevista dall’articolo 116 Costituzione (così allargando il proprio ambito di intervento a materie quali giudici di pace, istruzione, ambiente, beni culturali, tutela e sicurezza del lavoro, professioni, salute, protezione civile, reti di trasporto, comunicazione, previdenza complementare, e altre ancora). C’è da ritenere, sulla scorta dell’esperienza passata, che, se il procedimento venisse ultimato, le diseguaglianze territoriali ne risulterebbero, in realtà, ulteriormente rafforzate.
Il fatto, poi, che le regioni che per prime si sono mosse sulla strada dell’ulteriore differenziazione siano tutte concentrate al Nord (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, alle quali potrebbe a breve aggiungersi il Piemonte) e che l’argomento più frequentemente speso nel dibattito pubblico in materia sia quello della “restituzione” dei cosiddetti residui fiscali rende lecito il sospetto che l’intenzione sia proprio quella di abbandonare a se stesso, come fosse una zavorra, il Sud dell’Italia.
Cosa sia un residuo fiscale è presto detto: è la differenza tra quanto raccolto dal sistema tributario sul territorio regionale e quanto complessivamente speso in interventi pubblici sul medesimo territorio. È questa differenza che, secondo le regioni interessate (quelle più ricche), andrebbe ad esse “restituito”.
Il discorso è tanto suggestivo quanto errato: suggestivo, perché evoca un’equivalenza di apparente buon senso tra quanto ogni regione dà e quanto riceve; errato, perché in realtà sono i cittadini, e non le regioni, a pagare i tributi e a godere degli interventi pubblici, sicché, in effetti, nulla le regioni posso lamentare di aver versato “a perdere”.
La realizzazione dei disegni delle amministrazioni regionali settentrionali – disegni che, va notato, accomunano Lega e PD – avrebbe un effetto dirompente: i cittadini delle regioni più ricche si ritroverebbero a poter contare su ulteriori ingenti risorse (alcune decine di miliardi di euro), mentre quelli delle regioni più povere sprofonderebbero ulteriormente nelle difficoltà. Una redistribuzione della ricchezza al contrario, tanto ingiusta quanto incostituzionale: non solo per via della lesione al principio di uguaglianza che ne deriverebbe, ma anche a causa della frammentazione della cittadinanza nazionale in molteplici microcittadinanze regionali, come se la solidarietà tributaria non fosse un dovere, rivolto alla realizzazione dell’uguaglianza in senso sostanziale, che la Costituzione pone in capo a tutti i cittadini italiani, quale che sia la regione del Paese in cui contingentemente vivono.
D’altronde, a prendere sul serio il tema dei residui fiscali, perché fermarsi all’ambito regionale? All’interno di ciascuna regione ci sono province più o meno ricche e, all’interno di queste, analoga distinzione può essere fatta tra i comuni. Anche senza volersi spingere oltre (alle circoscrizioni, ai quartieri, alle strade, agli edifici, ai pianerottoli), si potrebbe mai sostenere, per esempio, che il Comune di Arcore “mantiene” quello di Monza dato che nel primo risiede uno dei più facoltosi contribuenti italiani? Forse gli stessi fautori del regionalismo differenziato troverebbero la domanda bislacca, e il motivo è quello ricordato prima: a versare risorse al fisco è quel singolo contribuente particolarmente facoltoso, non certo l’ente territoriale in cui si erge la sua villa principesca. Esattamente lo stesso motivo per cui la tesi che le regioni del Nord “mantengono” con le “loro” tasse quelle del Sud risulta priva di qualsivoglia fondamento.
In definitiva, per come si è venuto oggi configurando, il regionalismo differenziato va fermamente respinto perché, se non è basato su un argomento già smentito dall’esperienza (l’idea che l’arretratezza del Sud sia dovuta a un eccesso di omologazione), lo è su un ragionamento viziato in radice (l’idea che le regioni, anziché le persone, paghino imposte e ricevano servizi) e produttivo di effetti contrastanti con il disegno costituzionale.
Si è persa la logica con la quale Vanoni attivò la valenza fiscale del principio per il quale “chi ci più ha, più deve dare” per la vita di tutti, a cominciare da quelli che hanno meno, ma che hanno diritto di fruire degli stessi servizi e delle stesse potenzialità di vita di quanti possono “servirsi” con propri mezzi.
In questo quadro, è incongrua pure la scelta del cosiddetto”reddito di cittadinanza”. Lo Stato deve incentivare i processi di produzione (che abbisognano sempre di nuovo lavoro), non di processi di spesa senza lavoro.