1978: un anno cruciale per la sanità italiana. E ora?

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Il 1978 è stato l’anno più importante per la sanità italiana; non è stata approvata solo la legge di riforma sanitaria, ma sono state approvate la legge 180 (cosiddetta Basaglia), che ha portato alla chiusura dei manicomi e la legge 194 sulla interruzione volontaria della gravidanza.

In quale contesto nascevano queste leggi?

Non in un contesto omogeneo; infatti la legge di riforma sanitaria era stata preceduta da almeno due decenni di lotte sindacali e sociali che vedevano nel superamento delle Mutue una occasione per realizzare l’art. 32 della Costituzione e colmare vistose diseguaglianze; basti ricordare che gli artigiani e i disoccupati (dopo 6 mesi dal licenziamento) non godevano di alcuna tutela sanitaria. Inoltre l’approvazione della riforma sanitaria vedeva la confluenza di forze sociali di ispirazione marxista con quelle di ispirazione cattolica.

Diverso era invece il contesto in cui nasceva la legge 180; la chiusura dei manicomi era vista con preoccupazione (per non dire osteggiata) dalla maggioranza dell’opinione pubblica e degli psichiatri; solo pochi intellettuali (vale la pena di ricordare Sartre, Foucault, Laing, Guitary), alcune associazioni di parenti di malati psichiatrici, élites di sinistra (sbeffeggiate come “radical chic”) appoggiavano questa legge che aveva solide basi ideologiche: uguaglianza di tutti i cittadini, inclusione sociale al massimo livello compatibile dei disabili, curabilità delle malattie mentali, anche grazie ai progressi della farmacologia e delle psicoterapie, chiusura dei manicomi considerati anche come fattore di aggravamento della psicopatia.

Ancora differente era il contesto in cui nasceva la legge 194: netta divisione tra credenti e non credenti, tra masse cattoliche e laiche, che riproducevano le stesse divisioni presenti nel 1974 in occasione del referendum sul divorzio. Punte avanzate che lottavano per questa legge erano le associazioni femministe e il Partito Radicale; il PCI, all’inizio contrario alla legge, aveva poi cercato un compromesso tra le istanze più radicali delle femministe e gli antiabortisti sottolineando che l’IVG si opponeva alla clandestinità dell’aborto (allora fino a 500.000 all’anno) e al suo utilizzo per il controllo delle nascite; lo Stato non poteva disinteressarsi della salute di milioni di donne che ricorrevano all’aborto; inoltre l’ospedalizzazione permetteva una informazione sulla promozione della salute della donna , compreso l’utilizzo di anticoncezionali.

Quindi contesti diversi per ogni legge, ma con due fattori unificanti: a) la mobilitazione e le lotte sindacali, sociali, culturali che la accompagnavano; b) un Parlamento capace di portare a sintesi politica i fermenti della società, un Parlamento eletto con legge proporzionale , ben diverso dai parlamenti maggioritari in cui maggioranze e minoranze cristallizzate si confrontano solo al loro interno, impermeabili a quelle lotte che costituiscono il vero sale di una democrazia esercitata per 365 giorni all’anno e non solo nelle settimane che precedono il confronto elettorale.

Ma c’è un’altra componente: i partiti come corpi intermedi della società, diretti da un segretario ben distinto da chi sarebbe stato designato a fare il primo ministro e quindi capace di esercitare sempre un controllo dialettico sul Governo; inoltre i partiti nel 1978 esercitavano una funzione pedagogica nella società e sui propri iscritti che permetteva, tra l’altro, di portare in Parlamento persone con una lunga “gavetta” nel sindacato, nelle associazioni, nei consigli comunali.

La legge 180

Cosa erano i manicomi prima della legge? Secondo la legge 36/1904, i manicomi più che curare le malattie psichiatriche (le cure erano pressoché inefficaci e ben pochi medici dialogavano coi pazienti a fini psicoterapeutici) erano dei luoghi di esclusione sociale dove venivano rinchiusi, generalmente a vita, persone non solo con vere e proprie psicopatie ma anche persone che “davano fastidio”; i ricoveri erano più che raddoppiati durante il fascismo quando bastava criticare il regime per essere dichiarato “matto”; psichiatri ben voluti dal regime erano giunti a diagnosticare come affetti da “mania politica” persone che dissentivano dal PNF; anche i democristiani hanno usato il manicomio per allontanare dalla vita sociale alcuni avversari politici. Alda Merini così descrive il suo internamento: «Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo; gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava canzoni sconce. Noi sole, io e la Z, sedevamo su una pancaccia bassa, con le mani in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là».

[…] La legge 180 prende atto che non tutti sono uguali, ma che tutti dobbiamo avere le stesse libertà anche nei confronti delle cure psichiatriche come stabilito dall’art. 32 della Costituzione; i trattamenti sanitari obbligatori (TSO) vanno ridotti al minimo così come il ricovero ospedaliero deve essere limitato alla fase acuta della malattia; in seguito subentra un trattamento riabilitativo extraospedaliero che deve essere finalizzato al reinserimento sociale della persona al più alto livello permesso dalla sua disabilità. Bisogna peraltro ammettere che la legge 180 non prende atto se non parzialmente della intuizione più innovativa di Basaglia; la malattia mentale è influenzata nella sua gravità dalle condizioni economiche e sociali: “ penso che in un certo senso la logica terapeutica e la logica della lotta di classe siano due cose molto vicine e che solamente con dei passi in avanti della lotta di classe si potrà creare un nuovo codice per una nuova scienza, una scienza che sia al servizio del malato”. Allora apertura dei manicomi voleva dire fusione con il territorio e, soprattutto, partecipazione (A Milano vediamo qualcosa di simile sul piano culturale, ma non politico, colla Cooperativa Olinda al Paolo Pini).

Mi sembra di poter affermare che la legge 180 “burocratizza” le intuizioni di Basaglia, sopratutto per quanto riguarda la prevenzione dei disturbi mentali; gli attuali dipartimenti di salute mentale sono soprattutto luoghi di cura, sbilanciata in senso farmacologico e poco si fa sul piano riabilitativo e del reinserimento sociale. Da qui la sofferenza non solo dei pazienti ma anche delle loro famiglie che lamentano la carenza di strutture extraospedaliere di cura e riabilitazione; nel Friuli dove queste strutture sono più sviluppate il disagio è minore e lo stigma verso questi malati minore. Stigma estremamente difficile da estirpare come dimostra la lentezza con cui si è proceduto alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (ex manicomi criminali); solo il 31.3.2015 si sono create le REMS (Residenze per l’Esecuzione di misure di sicurezza) che tuttavia assomigliano spesso più a piccoli manicomi criminali che non a luoghi di cura.

Possiamo concludere che nel 2018: a) la legge 180 ci pone all’avanguardia di una assistenza psichiatrica inclusiva e non da “fossa dei serpenti” come ancora è definito il manicomio in USA. In particolare il pensiero di Basaglia va oltre al mero settore della malattia mentale per coinvolgere il disagio sociale, la marginalità, il significato politico di periferia. Peraltro la legge 180 si limita al solo disagio psichiatrico e,in parte, psicologico. (cosa criticata già allora da Pannella); b) la legge mostra una maggiore efficienza ed efficacia là dove funzionano meglio le strutture di riabilitazione e di prevenzione delle ricadute; c) nei reparti ospedalieri di diagnosi e cura delle acuzie psichiatriche spesso si adottano metodi da vecchio manicomio come la contenzione fisica o farmacologica , anche per carenza di personale; d) il disagio delle famiglie incentiva la sanità privata ad aprire reparti che non si pongono certo come fine l’inclusione sociale del malato e dove domina la somministrazione di psicofarmaci; e) la prevenzione è pressoché inesistente , tanto che la attuale crisi economica ha visto aumentare il numero di malati psichiatrici e di dipendenze; f) a mia conoscenza non esiste alcun accenno nel contratto di governo Lega-M5S alla assistenza psichiatrica e alla correzione dei deficit più vistosi.

Legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza (IVG)

A pochi giorni dalla approvazione della legge Basaglia, il 22.5.1978 veniva approvata la legge “Tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza”, con l’obiettivo sia di contrastare la piaga dell’aborto clandestino, utilizzato impropriamente come controllo delle nascite, sia di riconsegnare alle donne il controllo del proprio corpo. Si stimava che nel 1978 il numero degli aborti clandestini fosse uguale a quello delle nascite, 500 mila; erano accompagnati da numerose complicanze come peritoniti, perforazione dell’utero, metrorragie, eccetera, oltre a segnare negativamente la donna sul piano psicologico. In questi 40 anni di applicazione della legge, il numero delle IVG è andato progressivamente diminuendo; anche il numero degli aborti clandestini è stimato in decrescita come si può dedurre dalla diminuzione dei ricoveri ospedalieri dovuti a complicanze dell’aborto; l’assistenza sanitaria legata alla IVG è inoltre fonte di informazione sanitaria sulle pratiche contraccettive; la diminuzione delle IVG ha riguardato prima le donne italiane e poi le straniere (soprattutto provenienti dall’Europa dell’Est, tra le quali la pratica dell’aborto è stata a lungo considerata mezzo di controllo delle nascite).

Anche l’aborto non clandestino rappresenta un trauma per la donna; spesso tentativi di diminuire il disagio fornendo un appoggio psicologico venivano frustrati da comportamenti fanatici compiuti da associazioni antiabortiste o da operatori religiosi che chiedevano di seppellire in luogo sacro il materiale estratto. L’ostacolo più forte alla applicazione della legge è l’obiezione di coscienza, che inizialmente coinvolgeva ginecologi ed anestesisti, ma ora si è estesa ai portantini, ferristi, farmacisti che si rifiutano di fornire la “pillola del giorno dopo”. In alcune regioni il problema è drammatico, anche per l’allungamento delle liste d’attesa e quindi di interventi fatti quando la gravidanza è avanzata. Perché tanti obiettori? L’influenza delle gerarchie ecclesiastiche in Italia è sempre stata forte in Sanità e quindi le probabilità di fare carriera sono più elevate se ci si mostra ossequienti verso quanto la chiesa ordina; inoltre medici non-obiettori subivano discriminazioni, potendo entrare in sala operatoria solo per praticare IVG. Inutilmente si sono invocati concorsi limitati ai non-obiettori o che la valutazione dei direttori generali comprendesse anche la capacità di garantire l’IVG in tempi ragionevoli. […]

La Riforma sanitaria

La riforma sanitaria italiana si ispirava sì alla riforma sanitaria inglese del 1948 (Riforma Beveridge) che vedeva come punti cardine l’universalità e il finanziamento attraverso la fiscalità generale, ma al tempo stesso esprimeva la propria originalità nella integrazione socio-sanitaria; ne derivava la globalità e l’uniformità degli interventi , che non dovevano limitarsi alla cura ma estendersi alla prevenzione (considerando anche i determinanti sociali di malattia ) e alla riabilitazione che comprendeva anche il reinserimento sociale. Veniva superato il sistema delle mutue, basato sui contributi dei dipendenti e dei datori di lavoro, che non copriva i lavoratori autonomi e i disoccupati.

La riforma del 1978 è però stata notevolmente modificata sia dalla successiva aziendalizzazione (alle USSL sono subentrate le aziende sanitarie locali e le aziende ospedaliere) con depotenziamento del ruolo che inizialmente avevano i Comuni e la partecipazione dei cittadini, sia dalle modifiche del titolo V della Costituzione, che ha causato 21 sistemi sanitari diversi con depotenziamento dell’obiettivo della universalità del SSN. Ma la critica maggiore riguarda il sistematico sottofinanziamento della sanità, con gravi conseguenze soprattutto sul turnover del personale e sugli investimenti; con il conseguente allungamento delle liste d’attesa, i “supertickets” e l’aumento progressivo della spesa privata, salita a 40 miliardi di euro nel 2017 e dovuta soprattutto alle spese per riabilitazione, lungodegenza, spese odontoiatriche, ricorso al privato per superare le liste d’attesa; in piccola parte all’acquisto di farmaci out of pocket o di integratori alimentari e farmaci omeopatici. Queste criticità non sono considerate nel contratto di governo.

A prescindere da come andrà a finire, bisogna riconoscere che le dichiarazioni precedenti ed attuali della ministra Grillo sono indirizzate a un potenziamento del sistema sanitario pubblico, anche se molte intenzioni sono generiche e in contrasto con altri obiettivi citati nel contratto di governo. […] La ministra pensa di avere maggiori risorse rinegoziando il prezzo dei farmaci generici e incentivandone la prescrizione da parte dei medici: questo però può portare a far risparmiare al massimo 500 milioni di euro, cifra che non copre neppure una eventuale abolizione dei supertickets. Inoltre pensa di avere più risorse dalla abolizione degli sprechi, ma non indica quali, dalla ulteriore digitalizzazione della sanità, dalla centralizzazione degli acquisti, dalla lotta alla corruzione (cose già dette da anni). Anche i propositi di maggiore universalità del SSN, espressi dalla ministra, sono contraddetti dagli accordi su una maggiore autonomia regionale siglati da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che il M5S vuole rispettare.

Importante è il tentativo di rilanciare l’integrazione socio-sanitaria, che rappresenta uno dei punti cardini della riforma del 1978; questa avrebbe dovuto realizzarsi nel Distretto Socio-Sanitario, cosa riconfermata dalla legge del 2000 sulla assistenza sociale; la ministra non dovrebbe inventarsi nulla; ma perché allora non parla di distretti? Perché la Lega li ha aboliti in alcune legislazioni regionali? Il funzionamento di un Distretto è strettamente legato al ruolo che i Comuni hanno in Sanità e quindi dalla partecipazione dei cittadini; l’introduzione della aziendalizzazione ha abolito questo ruolo; cosa si vuole fare?

Ma è soprattutto dalla ventilata flat tax che viene il pericolo maggiore per il sistema sanitario nazionale: riducendo drasticamente il prelievo fiscale sui più abbienti si riducono ulteriormente le risorse pubbliche destinate alla Sanità, al punto che potrebbe minare alle fondamenta l’esistenza stessa del SSN, pubblico, universale, unitario (prevenzione, cura, riabilitazione).

Il testo è tratto dal più ampio articolo “1978-2018: quarant’anni di sanità italiana”
di prossima pubblicazione in www.gramscioggi.org.

 

Gli autori

Gaspare Jean

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