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17/04/2018 di: Marco Revelli
Che sia stato un terremoto non ci sono dubbi. Se il voto del febbraio 2013 era stato definito, a buona ragione, uno tzunami, che aveva spazzato la superficie del sistema politico italiano da nord a sud cambiandone i connotati, questo del 4 marzo 2018 è un vero e proprio sommovimento sismico della massima magnitudine, che proviene dal profondo del paese – dal suo sostrato strutturale – e ne ha modificato la stessa geografia fisica. Un sisma, potremmo dire, “primordiale”, di quelli che creano fosse oceaniche e nuove catene montuose…
Prima ancora delle analisi di flusso e degli studi di territorio lo rivela la cartografia elettorale. A colpo d’occhio. Con il linguaggio dei colori prima ancora che con quello dei numeri: parla da sé quella mappa bi-cromatica, con il sud quasi uniformemente giallo (il colore dei 5Stelle), e il nord quasi del tutto bluastro cangiante al verde (il colore del centro-destra a trazione leghista). Due Italie, in alto quella allineata a Visegrad, si direbbe, il blocco orientale che da Ungheria, Polonia, Cekia, Slovacchia scende attraverso il corridoio austriaco col suo sordo rancore da avari e recalcitranti soci di un’Europa a sua volta avara; in basso l’Italia antica “di Masaniello”, affondata nella sua mediterranea disperazione da abbandono, dopo che la vecchia rete di mediazione notabilare è saltata per mancanza di liquidità e la domanda di assistenza si è fatta in qualche modo terminale. In mezzo, poco, quasi niente: la macchietta rosa – come la definisce Ilvo Diamanti – della ex “zona rossa”, ora erosa ai margini e slabbrata, ridotta ai minimi termini dopo il catastrofico esperimento renziano…
Si può dire che in dieci anni esatti l’Italia ha visto mutare radicalmente per ben tre volte la struttura del proprio sistema politico: un bipolarismo quasi perfetto nel 2008, quando dopo gli interventi simmetrici e strutturali di Walter Veltroni (dal palco del Lingotto) e di Silvio Berlusconi (dal predellino della propria auto privata), PD e PDL si erano costituiti come monopolisti delle rispettive aree (con il secondo in ampia posizione di vantaggio – oltre 3 milioni di voti – sul primo e dominus nel centro-destra); un tripolarismo inaspettato nel 2013 quando – dopo l’anno di apnea della politica durante il governo dei tecnici – il PD di Bersani lanciato verso una vittoria annunciata si prese in faccia la sportellata dei 5Stelle assurti inaspettatamente per tutti a primo partito tra l’elettorato nazionale e terzo incomodo tra i due vecchi poli in disarmo; infine un nuovo tendenziale bipolarismo – questa volta Lega-5Stelle – costruito sulla marginalizzazione dei due antichi dominus – PD e Forza Italia –, in un contesto che vede le cosiddette forze anti-establishment diventare, congiuntamente, maggioranza assoluta.
Basta d’altra parte passare in rassegna i titoli che il gruppo di lavoro guidato da D’Alimonte per la Luiss ha dato ai propri “carotaggi”, per avere la misura della trasformazione “catastrofica” – nel senso letterale del termine – del voto di marzo e dei ribaltamenti a catena che in esso sono certificati: L’Italia unica tra le democrazie: maggioranza assoluta ai partiti anti-establishment, L’apocalisse del voto moderato: in dieci anni persi 18 milioni di voti; Il ritorno del voto di classe, ma al contrario (ovvero, se il PD è il partito delle élites). E ancora: L’avanzata del M5S: un unicum tra i nuovi partiti in Europa; Crescita e nazionalizzazione della Lega di Salvini; Il peggior risultato di sempre della sinistra italiana: la seconda più debole d’Europa. Per finire con L’onda sismica non si arresta: il mutamento del sistema partitico italiano dopo le elezioni del 2018.
Esemplare anche la sintesi di You Trend, che parla appunto di una “rivoluzione geografica” a proposito del voto. E che ne riconduce a due (più una) le novità: «prima, l’egemonia del Movimento 5Stelle nelle regioni meridionali, dove arriva in certi casi (Campania e Sicilia) a sfiorare un incredibile 50%. Seconda, la scomparsa delle “regioni rosse”, una certezza che pareva granitica e che durava praticamente da un secolo: il centrosinistra è primo solo in Toscana. In Emilia-Romagna e Umbria cede il primato al centrodestra, nelle Marche al M5S». Anche in questo caso, dunque, due “sconvolgenti” successi. E due altrettanto “sconvolgenti” sconfitte. Tra i successi quello clamoroso dei 5Stelle, appunto, che sono il primo partito in quasi tutto il territorio nazionale (si veda l’impressionante cartografia), e che hanno ulteriormente aumentato il proprio vantaggio sul 2013 di 7 punti percentuali: «è l’unico caso in Europa di un partito che alla sua seconda partecipazione nazionale (già il risultato della prima era stato giudicato eccezionale) aumenta i suoi voti invece di diminuirli, dopo aver “fatto il botto” nella sua prima apparizione» (Vincenzo Emanuele). E quello della Lega: il 17% ottenuto da Salvini è «di gran lunga il miglior risultato nella storia del partito che fu di Umberto Bossi. Il precedente record – annotano gli analisti di You trend –, per dire, era il 10% ottenuto nel 1996, poi replicato alle Europee 2009. Per la prima volta in un’elezione nazionale, la Lega è il primo partito del centrodestra. Non era mai successo dal 1994, cioè da quando esiste il centrodestra come entità politica-elettorale. Non solo: pur essendo il terzo partito in termini di voti, la Lega si ritrova a essere il secondo gruppo parlamentare sia alla Camera che al Senato, in virtù della buona performance del centrodestra nei collegi uninominali previsti dal Rosatellum, in particolare nei collegi settentrionali».
Tra le sconfitte quella, sonora e sonante, del PD: il quale «ottiene il peggior risultato della sua storia, un 18,7% che è persino peggiore del dato del solo PDS negli anni ’90, e per di più meno di 4 anni dopo lo stratosferico 40,8% delle Europee 2014. Dato il pessimo rendimento della coalizione nei collegi uninominali (28 collegi vinti alla Camera, 14 al Senato), i democratici sono solo il terzo/quarto partito per numero di eletti, giocandosi il podio con Forza Italia, che ha ottenuto quasi il 5% dei voti in meno». Ma anche la sconfitta di Forza Italia e in particolare di Silvio Berlusconi, il secondo “sconfitto eccellente” delle Politiche 2018: «il partito di Silvio Berlusconi viene scavalcato dalla Lega come prima forza del centro-destra e si ritrova ad essere virtualmente irrilevante nella scelta del prossimo governo. Una situazione completamente ribaltata rispetto i pronostici della vigilia, quando si pensava che sarebbe stato quasi certamente lui il king maker in qualunque scenario: sia che il centro-destra avesse ottenuto la maggioranza (con Forza Italia primo partito, come sembravano annunciare i sondaggi) sia che invece si fosse rivelato necessario un accordo di grande coalizione con il PD».
Se si passano in rassegna i risultati, in valori assoluti, delle ultime tre tornare elettorali – il 2008, il 2013 e l’attuale – la dimensione dello spostamento appare evidente. Per tutti. Nel 2008 il Centro-destra a guida Berlusconi aveva sconfitto il Centro-sinistra di Valter Veltroni con un distacco di oltre 3 milioni e mezzo di voti: 17.064.506 a 13.689.330. Allora Forza Italia aveva collezionato 13.689.464 voti e il PD le stava dietro per un’incollatura: 12.095.306. La Lega Nord, allora, portava alla coalizione 3.024.543 voti (meno di un quarto dell’egemonico partito personale di Berlusconi). A sinistra del PD la Sinistra Arcobaleno finiva sotto la soglia con i suoi 1.124.269 voti. Cinque anni più tardi, nel 2013, il Centro-sinistra guidato da Pierluigi Bersani vinceva il premio di maggioranza alla camera con 10.049.393 voti, ma il PD, con i suoi 8.646.034 voti finiva sotto il M5S che si aggiudicava circa 45.000 voti in più: 8.691.406. Rispetto al Veltroni “perdente” del 2008 il Bersani vincente (grazie a 1.089.231 voti di SEL) del 2013 aveva, comunque, perso per strada quasi 3 milioni e mezzo di voti ( 2.449.272 per la precisione). Ora il PD di Renzi giace a terra con la metà dei voti di Veltroni: 6.134.727. 2 milioni e mezzo in meno del Bersani che Renzi aveva irriso come “perdente”. Anche Forza Italia sta ai minimi termini con i suoi 4 milioni e mezzo di voti o poco più (4.590.774): meno di un terzo dei voti ottenuti nel 2008; quasi 2 milioni e mezzo in meno del già misero bottino del 2013. Messi insieme, Berlusconi e Renzi, superano di poco i 10 milioni di voti (poco più di un quinto del corpo elettorale), meno di quanto dieci anni prima ognuno dei due partiti, da solo,aveva raccolto. In compenso la Lega “nazionalizzata” di Matteo Salvini, con i suoi 5.691.921 voti, sta sopra di un milione di voti a Berlusconi, primo partito del Centro-destra, e insidia da vicino, come secondo partito, il PD (in numero di seggi lo supera, ed è il secondo gruppo alla Camera, grazie a quel genio di Rosati e alla sua legge elettorale). Su tutti svettano i 5Stelle, con i loro 10.727.056 voti, il primo partito in assoluto nella grande maggioranza dei collegi, oltre 2 milioni in più rispetto al 2013 quando già avevano stupito.
Un discorso a parte merita la “sinistra” nelle sue diverse componenti. Al default del Partito democratico, scomparso dai radar nella maggior parte del territorio nazionale, e indebolitosi drammaticamente nelle stesse aree del suo insediamento storico, non ha corrisposto alcun travaso di voti verso le formazioni nate alla sua sinistra, sia Liberi ed Eguali che Potere al popolo. È come se il fiume in piena in uscita dal Partito-madre avesse scavalcato tutto ciò che a quella storia si riferiva, e fosse approdato direttamente o al M5S (in maggioranza) o, in qualche caso, alla Lega (alle due forze più legate a un’immagine “anti-sistema”), o all’area dell’astensione, ma sicuramente non agli epigoni della vicenda della sinistra novecentesca. Liberi ed Eguali intercetta 1.113.969 voti, appena 24.000 in più rispetto ai voti di SEL nel 2013, 10.000 in più rispetto a quelli dell’Altra Europa con Tsipras alle europee del 2014, meno di quelli che il tanto vituperato Arcobaleno aveva collezionato nel 2008 restando (allora) sotto il quorum. Come se il bacino di simpatie e di militanza del vecchio Partito comunista (quella parte di popolo della sinistra che di quella storia avevano mantenuto identità e memoria) si fosse del tutto disseccato. E si fosse ormai in un’altra era geologica. Peggio ancora Potere al popolo, che aveva tentato la strada della metamorfosi linguistica assumendo un linguaggio mimetico con quello populista: i suoi 372.022 voti sono meno della metà di quelli che il Partito della Rifondazione comunista (che appunto in PAP aveva tentato la propria ennesima reincarnazione mimetica) aveva raccolto nel 2013 sotto le bandiere di Rivoluzione civile (765.189). Sommati insieme LeU e PAP fanno 1.485.991 voti: appena 382.000 in più rispetto a quelli de L’Altra Europa con Tsipras nel 2014, e 382.000 voti sono il 4,4% di quanto il PD di Bersani aveva preso nel 2013: in una tale cifra frazionale si dovrebbe calcolare il peso specifico della scissione. Il “popolo di sinistra” traghettato fuori dal corpo del partito-madre… Se si pensa che ancora nel 2006 la Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti aveva preso 2.229.464 voti, che uniti a quelli dei PdCI di Armando Cossutta facevano 3.113.591, si ha un’idea della evaporazione consumatasi a sinistra.
Quanto al Partito democratico, appare sempre più evidente (e imbarazzante per i suoi dirigenti) il mutamento genetico che lo caratterizza nel corso degli ultimi anni (in parte già inaugurato dalla “fusione a freddo” veltroniana del 2007-8, proseguito nella famigerata parentesi montiana del 2012, e giunto a compimento con l’esperienza terminale renziana: la sua trasformazione da rappresentante delle antiche “classi lavoratrici” (o, altrimenti detto, “classi subalterne” o anche “popolari”) a espressione dei ceti privilegiati, la parte benestante del Paese, i “vincenti” della globalizzazione e del modello di società d’impronta neo-liberale. Il paio di decili che stanno al vertice della nuova, allungata e feroce, piramide sociale prodotta dall’allungamento delle nostre società, dalla sconfitta storica del lavoro e dalla crisi delle classi medie. Un “mondo alla rovescia” in cui il “popolare” si fa “populista” e l’ex sinistra si fa ceto privilegiato. Per dirla con Luciano Gallino: «la lotta di classe dopo la lotta di classe», raccontata anche questa dalle mappe (dalla topografia del voto nelle grandi città dislocato tra centro e periferia) e dalla sovrapposizione della distribuzione del voto e del reddito su base territoriale.