Svezia: guerra tra gang e tramonto del “modello scandinavo”

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La guerra tra gang criminali che negli ultimi anni ha sgretolato l’immagine della Svezia come paese talmente sicuro da risultare noioso sta mettendo a dura prova il governo di destra guidato da Ulf Kristersson e legato a doppio filo agli ultranazionalisti Democratici di Svezia (SD), buoni amici di Giorgia Meloni. Si tratta di una guerra combattuta per lo più da giovanissimi a suon di sparatorie e bombe nei sobborghi di Stoccolma, ma anche di altre città; un’esplosione di violenza che ha mietuto, tra il 2018 e il 2021, una media di 45 persone all’anno, mentre il 2022 ha fatto registrare un record di decessi: 62. L’anno in corso sembrava registrare un calo, ma l’escalation di settembre (dodici morti in tre settimane) potrebbe azzerare il timido miglioramento. A fare le spese di questa prolungata ondata di criminalità non sono stati solo i membri delle gang, ma anche persone (alcune giovanissime) del tutto estranee ai fatti, il che ha alimentato il senso di allarme nella popolazione: sparatorie ed esplosioni avvengono spesso in zone affollate e in condomini abitati da comuni cittadinɜ.

La polizia ha cominciato a compilare statistiche sulla guerra tra gang nel 2016, e non è un caso: almeno uno dei rivoli che hanno innescato questa spirale distruttiva data al 2015, quando un gruppo di adolescenti (i più grandi hanno 19 anni) rapina una gioielleria in un sobborgo di Stoccolma. Uno dei giovanissimi esplode gratuitamente un colpo di pistola; i più grandi non gradiscono – l’accordo era di non usare per alcun motivo le armi – e quando pianificano un colpo più ambizioso (una rapina a un’agenzia di cambio valuta) tagliano fuori i quattordici-quindicenni, reputati troppo impulsivi. Questi ultimi però reclamano la loro parte del cospicuo malloppo: nell’incontro per discutere la spartizione ci scappa il morto, il primo di quella che diventa una vera e propria faida (il conflitto di Järva, una zona residenziale dell’area metropolitana di Stoccolma) tra due gang accomunate dall’origine somala dei loro giovanissimi “soldati”. Tuttavia non sono le appartenenze etniche a esacerbare le rivalità; il motore della guerra tra gang sono i soldi: da ottenere a qualsiasi costo (soprattutto con il traffico di droga e armi) e da sfoggiare come rivalsa nei confronti di una società che si professa tra le più democratiche e aperte del mondo ma è costruita sul presupposto di una comunità etnicamente omogenea.

Dopo il Far West delle ultime settimane, il 28 settembre il primo ministro ha tenuto un discorso al paese, ribadendo la soluzione che in realtà prometteva già un anno fa in campagna elettorale: più repressione. Kristersson addossa la colpa della grave situazione che il paese attraversa alle fallimentari misure di accoglienza e integrazione delle/dei migranti adottate da una “politica scriteriata e naïve”; il bersaglio sono i Socialdemocratici, che indubbiamente hanno delle grosse responsabilità, soprattutto per aver concentrato le persone di una stessa etnia in determinati aree residenziali (ad esempio iracheni e siriani a Södertälje, somali a Rinkeby, entrambi sobborghi di Stoccolma). Questa stratificazione spaziale tra zone abitate per lo più da autoctoni e zone con residenti di origine straniera si è riverberata in una gerarchia sociale, con un misto di (ipocrita) compassione e (sincera) stigmatizzazione delle cosiddette “aree svantaggiate”.

Kristersson però dimentica che per otto anni, dal 2006 al 2014, è stato al governo il suo partito, quello conservatore: per compiacere il fronte imprenditoriale, i due governi Reinfeldt hanno incentivato l’immigrazione economica, chiudendo gli occhi sulle innumerevoli forme di sfruttamento ai danni di migranti con basse qualifiche (il salario e le condizioni di lavoro reali in molti casi non corrispondevano al contratto dichiarato alle autorità). Pur riconoscendo che il brodo di coltura dell’escalation criminale sono l’emarginazione e l’esistenza di “società parallele”, il primo ministro si concentra su un solo versante: quello della repressione. Spiega che la legislazione svedese non è attrezzata per la guerra tra gang e i “bambinisoldati”: è tempo di cambiare, quindi.

Come? Riscrivendo la politica migratoria; una decisione “pesante, ma necessaria”, di cui già si vedono i risultati: l’immigrazione cresce in Europa, ma in Svezia diminuisce. Ma il governo – si compiace Kristersson – riscrive anche la politica penale. Qualcosa è già stato fatto: l’innalzamento (dal luglio di quest’anno) delle pene per il reclutamento di minori nelle gang e per reati connessi alla criminalità organizzata, soprattutto per quelli compiuti con armi pesanti ed esplosivi. Altre misure arriveranno a breve, misure che sollevano non pochi dubbi sulla solidità dello stato di diritto in Svezia, come segnalato da diversɜ giuristɜ: l’autorizzazione di intercettazioni preventive, permesse cioè sulla base del mero sospetto di una pianificazione di attività terroristiche o di criminalità organizzata; il riconoscimento alle guardie private (2/3 delle quali sono di estrema destra) di una funzione di ausilio alla polizia; l’introduzione delle testimonianze anonime e delle “zone di ispezione”, ossia la possibilità di delimitare aree sospette entro il cui perimetro la polizia è autorizzata a effettuare – senza mandato – perquisizioni di persone e veicoli; dulcis in fundo, una misura che si potrebbe definire internamento a tempo indeterminato per soggetti ritenuti ancora pericolosi, che potrebbero essere detenuti oltre il tempo massimo previsto per quello specifico reato.

Kristersson ammette: “dobbiamo imparare dagli altri paesi”. E infatti queste misure, ad alto grado di arbitrio, sono importate dalla Danimarca, la cui politica di legge e ordine (e di espulsione delle/dei migranti), perseguita dai locali Socialdemocratici ancora più che dal centrodestra, è considerata esemplare. Ma si può trascurare l’insegnamento dei maestri nel campo, gli USA? Ecco allora che nel pacchetto anti-gang del governo svedese entreranno anche telecamere di sorveglianza, riconoscimento facciale, metal detector e via dicendo. E si sta discutendo della possibilità di una collaborazione dell’esercito con la polizia (non per il controllo del territorio, ma per supporto logistico), che avrebbe l’appoggio dei Socialdemocratici.

Se si cerca nel discorso del primo ministro un riferimento a misure di prevenzione sul piano culturale e sociale, ci si deve accontentare dell’auspicio di una più stretta integrazione fra polizia, scuola e servizi sociali. In altre parole, ciò che ci si aspetta dalle istituzioni formative e assistenziali è che svolgano compiti di sorveglianza e delazione; quanto alle famiglie (straniere), dovranno impegnarsi a far frequentare la scuola – e soprattutto a far imparare lo svedese – alla loro prole. Pazienza se le scuole che questɜ bambinɜ frequenteranno sono degradate e con un corpo insegnante magari motivato ma lasciato solo. E poco importa se dopo aver imparato lo svedese questɜ bambinɜ difficilmente troveranno lavoro (se non precario e sottopagato), perché nessun imprenditore vorrà assumere qualcuno che si chiama Mohammed o Saman e viene da Rosengård (quartiere di Malmö) o Rinkeby.

Da un lato, si abusa della categoria di “aree svantaggiate”, che appiattisce la vita di interi quartieri e sobborghi su un’identità criminale, con buona pace delle attività culturali e delle forme di aggregazione sociale che in essi si svolgono. Dall’altra, nulla si fa per ridurre questo svantaggio: lo smantellamento del Welfare State e l’attacco ai diritti del lavoro dipendente – processi perseguiti dalla destra come dai Socialdemocratici – hanno accresciuto le diseguaglianze economiche tra la popolazione autoctona e quella immigrata; la xenofobia bipartisan ha esacerbato le differenze culturali e sociali, fino a presentarle come inconciliabili.

Come se non bastasse, la crisi diplomatica con la Turchia (sulla questione Nato) e il mondo musulmano in genere (per i ripetuti roghi del Corano da parte di estremisti di destra appoggiati dai Democratici di Svezia) ha reso ancora più fragili i diritti delle persone di origine extraeuropea. È curioso che il nemico pubblico n. 1 della Svezia (anzi, il n. 2, perché il primo è da sempre la Russia) sia diventato Rawa Majid; soprannominato la “Volpe curda”, nel 2018 è stato autorizzato dalle autorità svedesi a lasciare il paese per le minacce ricevute da gang rivali, nonostante fosse stato riconosciuto colpevole di un gran numero di sparatorie e attentati. Ora che è cittadino turco, la Svezia lo rivuole: ne ha chiesto l’estradizione, minacciando ritorsioni in caso di rifiuto da parte delle autorità di Ankara, ma poi… ha lasciato cadere la faccenda, probabilmente per non infastidire Erdoğan (che al contrario non si stanca di pretendere da Stoccolma l’estradizione di presunti terroristi curdi in cambio del suo sì all’ingresso della Svezia nella Nato).

Possiamo liquidare la svolta repressiva su scala globale cui stiamo assistendo come il risultato di un “ritorno del fascismo” che intacca anche paesi modello come quelli scandinavi; oppure, più dolorosamente, interrogarci sui confini del “popolo” che i regimi occidentali pretendevano di rappresentare. Più che discutere di crisi della democrazia, dovremmo assumere la categoria di etnocrazia, e rileggere in questa luce la storia del dopoguerra.

Gli autori

Monica Quirico

Monica Quirico, storica, è honorary research fellow presso l'Istituto di storia contemporanea della Södertörn University di Stoccolma. La sua ricerca verte sulla storia e la politica svedese, spesso in prospettiva comparata con l'Italia. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo (Torino, Rosenberg & Sellier, 2018), scritto con Gianfranco Ragona.

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