Da sette giorni i giovani francesi protestano dopo l’assassinio del giovane Nahel da parte di un poliziotto ma da almeno sette anni la Francia è in rivolta contro le proprie élite. Vista dalla sonnolenta Italia, la capacità dei movimenti sociali francesi di durare, rinnovarsi, cambiare pelle nonostante una repressione sempre più violenta è stupefacente.
Non è un’esagerazione dire che Emmanuel Macron è al potere e rimane al potere solo grazie alla sua polizia, che nel 2018 ha storpiato e mutilato qualche decina di gilet gialli, come in queste ore picchia, lancia lacrimogeni e mette in campo i mezzi blindati per far fronte a una giusta ribellione dei giovani. Dal 2017 in poi sono stati decine e decine i casi di cittadini uccisi o gravemente feriti dalla polizia, come è ampiamente documentato nel libro Cinque mani mozzate di Sophie Divry, meritoriamente tradotto in Italia da Luca Sossella editore. Non che prima i flic fossero bonari e simpatici come il commissario Maigret ma oggi il potere sembra voler tornare ai metodi del prefetto Maurice Papon, prima servitore degli occupanti tedeschi e poi architetto della repressione contro i sostenitori dell’indipendenza algerina: il massacro del metrò Charonne, nel 1961, non è stato dimenticato.
Siamo di fronte a un ciclo rivoluzionario che non sappiamo che sbocchi potrà avere ma il cui carattere radicale difficilmente può essere messo in dubbio: iniziato con la mobilitazione contro le leggi sul lavoro nel 2016, proseguito dai gilet gialli nel novembre 2018, sospeso grazie all’epidemia di Covid-19, ripreso con le gigantesche manifestazioni contro l’aumento dell’età pensionabile nelle scorse settimane e proseguito nei giorni scorsi con i violenti scontri dopo l’assassinio di Nahel. Non a caso, la principale richiesta del movimento dei gilet gialli non era economica o di giustizia: si trattava delle dimissioni del presidente Macron in quanto simbolo del potere parigino.
Il presidenzialismo voluto dal generale De Gaulle nel 1958 ha creato quella che molti studiosi di scienza politica, primo fra tutti Maurice Duverger, hanno chiamato “monarchia repubblicana” perché, in fin dei conti, tutto fa capo al Presidente. Non solo la politica estera e quella militare ma sostanzialmente ogni scelta importante, dalle sovvenzioni ai pescatori fino ai concorsi per le grandi opere pubbliche come la nuova sede della Bibliothèque Nationale voluta a suo tempo da François Mitterrand. Il primo ministro fa da capo di gabinetto, risolutore dei problemi e, all’occorrenza, da parafulmine per scaricare su qualcuno le colpe del presidente. Un assetto non molto diverso da quello che esisteva esattamente 200 anni fa con Luigi XV quando il duca d’Orléans, il principe di Condé e il cardinale de Fleury cercarono, a turno, di far funzionare la macchina dello stato tra il 1723 e il 1743 (poi il re decise di fare da solo per una quindicina d’anni). In realtà la costituzione della Quinta Repubblica sarebbe più democratica di quanto appaia. Per esempio la carta non dà al Presidente il potere di licenziare il primo ministro a suo piacimento. Tuttavia, l’interpretazione che di fatto si è affermata in questi 65 anni è che il Presidente sceglie il “suo” capo del governo e, quando non è soddisfatto, gli chiede di dimettersi, cosa che avviene sull’istante (unica eccezione: i brevi periodi di “coabitazione” tra un presidente e un primo ministro di forze politiche opposte). Nel caso di Macron, che incarna una versione particolarmente violenta del neoliberismo autoritario dei nostri tempi, questo è particolarmente evidente. Elisabeth Borne ha le settimane contate.
Questo tema interessa anche noi perché Giorgia Meloni guarda all’elezione diretta del presidente della repubblica come al coronamento del successo del suo progetto politico. La maggioranza oggi al governo vede il presidenzialismo come soluzione di tutti i mali ma forse dovrebbe riflettere sull’esempio francese, che mette in luce le conseguenze della concentrazione dei poteri. Presidenzialismo, più impunità per gli affaristi e più polizia per tutti gli altri, questa è la lista dei desideri del governo Meloni. L’antica saggezza cinese prescrive tuttavia di fare attenzione ai propri desideri perché… potrebbero realizzarsi. E il risultato non sarebbe quello aspettato. La manipolazione dell’informazione, l’asservimento della magistratura (che a Parigi dipende dal governo, esattamente come vorrebbero Salvini e Nordio) e il ricorso facile alla polizia non possono impedire manifestazioni, scioperi, rivolte.