Le reazioni alla riconferma del potere ormai ventennale di Erdogan grazie alla vittoria al ballottaggio nelle elezioni del maggio scorso sono ormai uscite dagli interessi della cronaca. I rapporti degli osservatori internazionali hanno solo testimoniato che la situazione complessiva non era ottimale, anzi, per diversi aspetti e in aree critiche, decisamente preoccupante, ma senza mettere in dubbio la correttezza formale del processo elettorale, tanto più considerando l’altissima partecipazione alle urne. Anche questi rapporti, peraltro, sembrano far parte dei ricchissimi dossier a disposizione di chi vorrà raccontare seriamente la storia del paese negli ultimi anni, soprattutto dal 2016 (anno del misterioso tentativo di colpo di Stato che ha regalato a Erdogan un potere assoluto). Sono infiniti, di fatto, i dati su come la Turchia è divenuta luogo e tempo di un processo di cancellazione “esemplare” della società civile, nelle sue forme più rappresentative (come la giustizia, la libertà di dissenso intellettuale, i diritti, anche quelli formalmente riconosciuti), della comunità kurda etc. Per non parlare del ruolo di Erdogan e delle sue politiche militari a livello regionale, e non solo.
Ciò che ancor più velocemente, e significativamente, è divenuto visibile nella cronaca internazionale è stato il riconoscimento unanime della vittoria di Erdogan, che ha preso, soprattutto nel contesto europeo, toni decisamente al di là della formalità diplomatica. Nulla di nuovo, fattualmente e formalmente. Le elezioni, per quanto non garanti di rappresentatività (per un prima dittatoriale, per manipolazioni in termini informativi o di ricatti economici e altro ancora), sono sacre ed espressione inviolabile della non ingerenza nelle politiche nazionali. La Turchia di Erdogan è legittimata, dunque, a giocare per altri cinque anni il suo ruolo di battitore libero nello scenario europeo (che qui più interessa sottolineare), rispetto al popolo Kurdo (dentro e fuori i confini del paese), nella gestione dei popoli migranti, nelle alleanze con gli altri poteri del Mediterraneo (dalla dittatura di Al Sisi, a quella di Assad, alla Libia, alla “democrazia modello” di Israele, ai Paesi Arabi).
La democrazia elettorale ha cancellato la totale negazione della democrazia sostanziale. La situazione della Turchia non è certo la sola in cui si verifica la dissociazione della democrazia dalle sue caratteristiche imprescindibili. Ma è altrettanto chiaro che il non riconoscimento di questa dissociazione in un Paese che può dettare le sue condizioni alle politiche di una regione come quella europea, che aveva, ed ha, nella “democrazia” le radici della sua identità è un allarme grave della crescente non credibilità dei discorsi e delle istituzioni che si sviluppano “dimenticando”, al loro interno e nelle politiche internazionali, l’alfabeto della democrazia come riferimento di legittimità. L’accettazione internazionale “senza se e senza ma” di un Governo che viola apertamente le regole minime della democrazia, ignorando-impedendo qualsiasi verifica dello stato della giustizia, dell’autonomia della cultura, dei diritti del popolo Kurdo (al di là del destino di un prigioniero come Ocalan, isolato con criteri che fanno impallidire la segregazione di Mandela) ha in questo senso lo stesso peso di abdicazione alle radici del convivere civile che ha la rinuncia dell’Europa a considerare l’opzione della pace e ad obbedire alla logica della NATO nei rapporti con la guerra tra Russia e Ucraina. Con il suo silenzio, che si trasforma in connivenza, sulla Turchia di Erdogan, l’Europa dice di abdicare ad avere un ruolo di riferimento nella ridefinizione dei blocchi di potere nel mondo globale.
Le pratiche del diritto internazionale degli Stati si confermano alternative e contrapposte ai diritti umani e dei popoli. I poteri che rispondono a interessi economici, ideologici, militari, anche se sostenuti da elezioni più o meno manipolate, o sulla base di logiche razziali, o pseudo-religiose (da Bolsonaro a Modi a Israele eccetera), possono prescindere dal rispetto di ogni regola di convivenza civile ed essere considerati interlocutori affidabili delle democrazie. La Turchia di Erdogan non è una novità: è l’ultimo, più vicino, più esplicito pro-memoria del fatto che la democrazia è una definizione scaduta. Come la pace, che della democrazia dovrebbe essere una premessa irrinunciabile.
I pro-memoria non offrono soluzioni. Possono essere considerati troppo ovvi, o superficiali, o rassegnati. Possono però, senza ottimismi e con disincanto, essere utili: per l’Europa? per i tanti popoli repressi o che sperimentano sguardi diversi sul mondo? Le domande sono tante e le risposte sono note. Hanno come minimo comune denominatore obbligato il riconoscimento, che implica la restituzione, degli umani e della dignità inviolabile delle loro vite, nessuna esclusa, come soggetti e destinatari di diritti più delle merci e delle armi. La “banalità” di questa pretesa è oggetto di derisione nelle politiche che contano e che si rivestono di promesse di realismo, affidate, con la stessa forza, alla artificialità più o meno digitalizzata delle intelligenze e alla trasversalità delle guerre. La Turchia di Erdogan, con le sue politiche ad ampio spettro, in termini di tecnologie, alleanze, ricatti, ha avuto il permesso – e l’approvazione – per essere un laboratorio, privilegiato e da rispettare, dei “meriti” di questa non-democrazia. Lo si è detto, ma val la pena ripeterlo: non è certo l’unico caso. Anzi. È quasi più difficile riconoscere nello scenario globale “laboratori” di segno opposto. Come per la pace, invece che per la guerra: grande opportunità per una Europa che ogni giorno dimostra di aver perso la memoria. Gli indicatori infinitamente semplici di un cammino diverso sono ben in evidenza e in attesa: politiche di sostegno alle migrazioni, di lotta alle diseguaglianze, di no alla guerra come strumento di difesa-promozione di democrazia. E, chissà, per iniziare, anche tante iniziative di opposizione culturale, giuridica, di denuncia, da parte della società civile, contro Erdogan, le sue pratiche e la sua immagine: riconoscendo così il suo ruolo di pro-memoria del bisogno di non cedere alle fake news di democrazie che usano le vite degli umani di cui si dichiarano garanti come merci da scambiare-trafficare con i migliori offerenti.