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01/06/2023 di: Gianni Tognoni
Dal 19 al 21 maggio si è svolto a Hiroshima l’incontro dei paesi del G7, autodefinitisi rappresentanti delle democrazie più ricche del mondo globale (USA, Giappone, Canada, UK, Germania, Francia, Italia), per fare il punto sullo stato della società planetaria, analizzandone le priorità e le criticità, complessive e specifiche per le aree considerate determinanti al fine di garantire un futuro coerente con gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG 2030) e con gli impegni definiti, per la componente ambientale, dalle COP convocate regolarmente per realizzare gli accordi di Parigi. Erano presenti tutti i principali attori internazionali: IEA, IMF, OECD, UN, WB, WHO, WTO. L’evento, atteso come centrale (almeno sotto il profilo simbolico), è stato di fatto assorbito, nelle cronache internazionali, dagli scenari di armamenti-guerra impersonati dalla presenza, mediaticamente in primo piano, di Zelensky. Sono, invece, passati in secondo piano, e di fatto cancellati in termini di visibilità-comunicazione, i contenuti dell’incontro, che si è concluso con un lunghissimo documento (40 pagine articolate in 66 paragrafi) che ha la struttura e lo stile di una sintesi di quanto deve essere considerato di riferimento per il futuro dell’economia, dei modelli di sviluppo, di una democrazia realistica.
Sarebbe senza senso pretendere di proporre un’analisi che sostituisca la sostanziale assenza di attenzione che ha caratterizzato la cronaca italiana. I punti che seguono – un riassunto per parole chiave – sono appunti di riflessione, molto parziali, la cui aderenza alla sostanza dei messaggi è facilmente verificabile dalla lettura del rapporto.
Rappresentatività. I G7 includono il 10% della popolazione mondiale, e il loro PIL complessivo è il 27% di quello globale. L’invito, molto selettivo, ad essere presenti rivolto a partner tanto diversi come Australia, Brasile, Isole Cook, Comore, India, Indonesia, Corea del Sud, Vietnam per discutere sulla pace e la sicurezza internazionale non ha nessuna giustificazione riconoscibile nel rapporto, che fa peraltro riferimenti molto pronunciati alla criticità complessiva delle aree degli oceani Indiano e Pacifico.
Messaggio principale. I G7 sono assolutamente uniti. Senza eccezioni e senza dubbi. Il fact sheet della Casa Bianca rasenta il patetico con la sua sequenza, che non serve tradurre per mantenerne la solennità verbale: United on Ukraine, United on China, United on Economic Resilience and Economic Security, United on Building the Clean Energy Economies of the Future, United on an affirmative and Ambitious Development Agenda, United on Nuclear Disarmament. A questi titoli senza sfumature seguono paragrafi altrettanto netti, con poche eccezioni, che ci si arrischia a tradurre: “preoccupazioni” per il possibile mancato rispetto dei diritti umani in Cina (da cui non bisogna “disaccoppiarsi”, ma che non deve rappresentare una minaccia per l’“integrità delle nostre istituzioni democratiche”); condanna per l’irresponsabile retorica nucleare della Russia; preoccupazione per l’opacità della Cina sul suo arsenale nucleare e per le politiche in questo campo della Corea del Nord e dell’Iran.
Le parole-mantra che fanno da filo conduttore. I due termini che ricorrono quasi ossessivamente in modo trasversale a tutti i temi trattati (e sono proprio tanti, di ogni tipo e dettaglio, tutti ricondotti ad affermazioni che non prevedono l’esistenza di punti di vista diversi, o magari complementari) sono commitment (impegno) e resilience (resilienza). Ci si impegna su tutto perché uno sguardo a un futuro che, per definizione, deve essere pensato come resiliente è la caratteristica di leader che si sentono coscienti e responsabili di coloro che ancora non possono godere della “democrazia realizzata” dei G7. Coerentemente con la caratteristica delle parole che usano, i leader si sentono dispensati dal fornire dati, ragioni, tempi, modi che permettano di valutare seriamente la fondatezza di quanto affermano, e di fornire così una base di confronto per monitorarne la realizzabilità. Applicata a scala globale, e trasversale a tutte le aree, è la logica del PNNR: una sostituzione della realtà travestita da un’autorevolezza che si pretende debba essere credibile per l’altezza formale da cui proviene. Si riproduce, senza pudore, il vecchissimo ricatto del TINA di tatcheriana memoria (There Is No Alternative). L’apparente radicalità di questo giudizio è una “forzatura” al rovescio. È sufficiente confrontare uno dei temi che ricorre nel rapporto: quello del diritto e dell’accessibilità al cibo. La causa del loro mancato riconoscimento più spesso evocata (anche per pensare a una soluzione possibile) è l’aggressione della Russia all’Ucraina. Eppure nessuna persona ragionevole potrebbe passare dal riconoscimento “senza se e senza ma” che la guerra in corso è un elemento della crisi all’arrogante negazione dei fatti. Basta prendere il rapporto ufficiale, pubblicato mesi prima dei G7 (perfettamente informato su Russia-Ucraina) a conclusione della 52ª Sessione del Human Rights Council delle Nazioni Unite, a cura del relatore speciale sul diritto al cibo, Michael Fakhri («il sistema cibo è basato su un’economia globale di dipendenza ed estrattivismo, […] discriminazione e disuguaglianza, […] aggressione violenta all’integrità fisica e mentale delle persone, […] malnutrizione e carestie […], violenza sessuale e di genere […], violenza ecologica»), per rendere non solo ridicola e offensiva, ma criminale una posizione come quella dei G7. Se si vuol avere conferma della capacità di menzogna (per omissione, occultamento, sostituzione di dati) e della distanza dal reale dello “sguardo dall’alto e da fuori” del G7, si potrebbero fare le stesse rilevazioni per il modo con cui si parla della migrazione (due paragrafi, che trattano anche di diritti umani, rifugiati, democrazia), della sanità, dell’educazione, del genere (tre paragrafi, 42-44), dell’ambiente; per non parlare del modo di trattare lo scenario Palestina-Israele: un solo par di 7 righe, esemplare: non c’è Gaza, non c’è Patto di Abramo, non c’è apartheid…, si conferma la fiducia nella soluzione dei due Stati. Commitments, recommendations, resilience per tutto, rigorosamente senza dati e contesti di riferimento.
Guerra. In modo esplicito e implicito, avendo come motivo ricorrente lo scenario Russia-Ucraina, la guerra è presente nei termini che ormai da tanti mesi si conoscono. Con una caratteristica, attesa, ma che risulta in un certo senso politicamente ridicola, o, meglio, come indicatore perfetto del ruolo di questi summit che si pretendono solenni: ci si dichiara tutti d’accordo. Neppure una traccia, anche leggera, di un bisogno di “resilienza” intellettuale, di un problema di crisi di democrazia: si ripete, con convinzione verbale, che il disarmo e il bando alle armi nucleari fanno parte dei commitments. La logica del G7 è quella di negare le conflittualità che possono minacciare la linearità e la sottrazione al dibattito della violenza della realtà. Neppure un cenno sul ruolo del mercato delle armi. Per non parlare di un neo-colonialismo che occupa l’attenzione di tutti coloro che vorrebbero, almeno un poco, chiamare le cose per nome. E le tante guerre in corso sono relegate alle sezioni “regionali”. Noi, paesi democratici, non c’entriamo. Possiamo solo esprimere raccomandazioni: perfettamente anonime, perché i tanti sinonimi di “dittatori” o simili non possono essere riferiti a persone reali. Gli intrecci, apertissimi e segreti, tra economia, politica, ambiente, risorse, terrorismi, di cui sono fatte le tante guerre non possono far parte di un rapporto “pubblico”. Un esempio che richiama quanto detto sopra a proposito di cibo: il summit si è tenuto in un luogo non “neutro” della storia globale, nel cuore di un continente che è testimone-attore di due genocidi in corso: quello dei Rohingyas, in Myanmar (oggetto di una sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli dal 2017, ripreso da due anni anche dalla Corte penale internazionale), e quello del popolo Eelam Tamil, in Sri Lanka (anch’esso giudicato dal TPP, ormai da 10 anni, ma che interessa attualmente anche la giustizia tedesca e inglese). E, a proposito di India, si dovrebbe ricordare almeno il Kashmir. Ma anche la sola menzione dei nomi è proibita. Lo avevano fatto anche con Papa Francesco, che poi ha disobbedito. I G7 citano, ovviamente, l’ASEAN che è la autorità regionale: le raccomandano pace e sviluppo per tutti i paesi, così che gli accordi commerciali con i G7 siano più fluidi. I popoli sono incidenti di percorso, da risolvere nascondendoli, o eliminandoli.
Un ultimo termine di riferimento: economic coercion. Il rapporto su questo tema è stato affidato al primo ministro inglese: con il compito, ben mirato e diligentemente svolto, di raccomandare-avvertire la Cina di non essere troppo aggressiva e incauta nella sua economic coercion: in settori tanto critici come quelli, ben noti, di semiconduttori, così pericolosamente alla frontiera tra mercati e sovranità territoriali (vedi Taiwan) e più largamente nel controllo delle vie del mare di quella parte del mondo. Gli invitati extra G7 (Australia, Indonesia) dovevano sentirsi formalmente committed: informati e coinvolti. Come nel discorso fatto al G7 dalla Presidente della Commissione Europea. In contesti delicati come quelli dei rapporti commerciali ed economici chiamare per nome i responsabili – Cina e Usa – non è elegante, anche se rischia di violare la “unità” assoluta dichiarata come risultato: «la trasparenza su come produciamo e sosteniamo le nostre produzioni è un punto di partenza».
Per concludere. Niente di nuovo in quanto è stato detto, come nel sistema di conferenze attorno cui gira il mondo (nel rapporto da Hiroshima uno dei paragrafi più “affascinanti” è l’elencazione di quante ce ne aspettano fino alla fine del 2024…): siamo al sicuro, tutto è sotto controllo e affidato a mani e menti responsabili; “connesse” è l’esplicitazione della dissociazione delle politiche globali dalla vita reale dei popoli. È interessante che, nelle forme di una diplomazia abituata a tutto digerire, persino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Guterres, più o meno nei giorni dei G7, ha riconosciuto che il sistema degli Stati così come era stato stabilito ai tempi della Dichiarazione Universale non è più capace né adatto a un mondo radicalmente cambiato: non solo per la contraddizione strutturale della composizione e dei compiti del Consiglio di sicurezza. È la sostanza stessa della democrazia che è in causa. Il teatro dei G7 sul cibo o sulla guerra, e nei suoi linguaggi “resilienti”, non è diverso da quello dell’Unione Europea che si affretta a congratularsi caldamente con Erdogan, negatore certificato di tutti i diritti fondamentali internazionalmente riconosciuti, così come hanno fatto tutti i G7, rappresentanti e custodi della dignità delle democrazie. Il disincanto (certo non nuovo) rispetto alla politica ufficiale deve essere una componente metodologica essenziale per vivere in una storia fatta e ostentata come una realtà che di fatto prescinde dalla concretezza della vita delle persone, e dove le “narrazioni” che dispensano dalla verifica delle sostituiscono il tempo e la fatica di chiamare per nome ciò che è intollerabile, anche se rivestito di altre parole. Ad Hiroshima, Biden non ha voluto neppure considerare la possibilità di ricordare le vittime: ha scritto nel libro degli ospiti una frase che può ben chiudere questa riflessione sulla capacità di finzione della politica dei “padroni” (lecito, od obbligato, questo termine nell’anniversario di don Milani?): «Possano le storie di questo “museo” ricordarci i nostri obblighi di costruire un futuro di pace».