Usa: l’aumento dei salari preoccupa l’establishment

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La delusione tanto del presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, quanto degli economisti statunitensi mainstream di fronte alla resistenza di un mercato del lavoro “troppo stretto” (tight, in inglese), che non riescono a domare nonostante un frequente rialzo degli interessi sul prestito del denaro come non si era visto dal 1980 (l’ultimo dei quali – mercoledì 3 maggio – ha portato il tasso sopra i 5 punti percentuali, il più alto da 15 anni a questa parte), è palpabile.

Penalizzare i lavoratori americani, additati quali colpevoli dell’inflazione – peraltro calante a partire dalla metà del 2022 –, è stata la strategia che finora la Fed ha adottato, senza successo, per cercare di ridurre quella forbice fra posti di lavoro disponibili e lavoratori disposti ad accettarli che dalla fine della pandemia ha fortemente avvantaggiato questi ultimi. A dicembre scorso la situazione, molto preoccupante nell’ottica degli economisti statunitensi, era infatti che a fronte di ogni aspirante lavoratore alla ricerca di un’occupazione c’erano ben quasi due posti di lavoro disponibili. Una vera rivoluzione se comparata con ciò che accadeva qualche anno prima della pandemia, quando per quattro aspiranti lavoratori vi era un solo posto di lavoro disponibile. E se i primi mesi di quest’anno sembravano aver dato segnali di un ritorno verso la “normalità”, ossia un mercato del lavoro meno out of balance nelle parole di Jerome Powell (fra i molti luoghi, cfr. https://www.pbs.org/newshour/economy/powell-predicts-significant-inflation-drop-but-job-market-strength-means-more-rate-hikes), la doccia fredda è arrivata col job report del Labor Department di aprile, reso pubblico venerdì 5 maggio: 253.000 posti di lavoro aggiunti nel mese, con una disoccupazione al 3.4%, che ricalca la percentuale di gennaio, quando la disoccupazione ha toccato il minimo storico dal 1969 (https://www.cnbc.com/2023/02/03/jobs-report-january-2023-.html) e un rapporto posti di lavoro disponibili v. aspiranti lavoratori analogo a dicembre scorso. In questo tight labor market e nella condizione di quasi piena occupazione, i lavoratori sono così ritornati a vedere crescere i loro salari rispetto ai due mesi precedenti, per raggiungere nuovamente quegli aumenti che per quarant’anni erano stati loro negati, prima da un mercato del lavoro “bilanciato”, come direbbe Jerome Powell, e poi da strumenti giuridici canaglia (come le non-compete clauses o l’arbitrato obbligatorio: https://www.questionegiustizia.it/articolo/great-resignation), che avevano “raffreddato” le forze del mercato che li avrebbero finalmente avvantaggiati. Una situazione davvero allarmante per Jerome Powell e gli economisti americani, preoccupati di una crescita salariale “rimasta troppo forte” (https://www.nytimes.com/2023/05/05/business/economy/wages-fed-inflation.html), giacché nella loro ottica un mercato bilanciato, capace di evitare l’inflazione, è solo quello in cui il lavoratori soffrono, hanno paghe da fame e rimangono alla mercé dei datori (o meglio “prenditori”) di lavoro. La condizione per loro ideale è, insomma, quella rappresentata da una ricerca del 2020 del Congresso statunitense, secondo la quale fra 1979 e il 2019 negli Stati Uniti i lavoratori maschi più poveri, ossia quelli che stanno al 10mo e al 50mo percentile, hanno subito una diminuzione dei loro salari rispettivamente del 7 e del 3 per cento e tutti i lavoratori senza diploma universitario hanno visto decrescere i loro redditi da lavoro fino all’11.1 per cento (cfr. Congressional Research Service, Real Wage Trends, 1979 to 2019, al sito: https://fas.org/sgp/crs/misc/R45090.pdf). Ciò a fronte di un aumento medio dei redditi dei manager delle corporation, nel medesimo periodo, del 1000 per cento (L. Mishel–J. Wolfe, CEO compensation has grown 940% since 1978: https://www.epi.org/publication/ceo-compensation-2018/) e di stipendi annuali dei Ceo delle grandi multinazionali che corrispondono a 1000 anni di lavoro dei dipendenti delle stesse compagnie (https://www.commondreams.org/news/2019/09/30/major-us-corporations-employees-would-have-work-1000-years-earn-what-ceos-made-one).

A seguito della pandemia, però, qualcosa si è smosso e i lavoratori statunitensi, dopo quarant’anni di disciplinamento da parte del mercato e di un diritto canaglia che li voleva ingabbiati in salari da fame (basti dire che una ricerca del 2019 riporta come prima del coronavirus il 44% dei lavoratori ricevesse una paga oraria da povero: https://www.brookings.edu/research/meet-the-low-wage-workforce/), si sono ribellati, forse anche grazie a quel minimo di forza ottenuta attraverso i sussidi di disoccupazione erogati prima da Trump e poi da Biden. Hanno così cominciato a dimettersi in massa, dando vita alla così detta Great Resignation (https://volerelaluna.it/lavoro/2021/12/16/sorpresa-negli-usa-i-lavoratori-si-ribellano/), a scioperare in modo massiccio e a ri-sindacalizzarsi dopo decenni di declino del tasso di partecipazione sindacale (si pensi alle recenti sindacalizzazioni ottenute dai lavoratori di Amazon, di Starbucks, di Chipotle, per indicarne solo alcune). Cosicché a distanza di tanti anni l’attuale situazione li vede finalmente, anche se temporaneamente, vincitori. I dati degli aumenti salariali riportati per il mese di dicembre, e ricalcati ora nei mesi di marzo e aprile, sono sul punto eloquenti: non solo una percentuale media di crescita del 5.1 (https://www.nytimes.com/2023/04/28/business/economy/inflation-fed-wages-prices.html), che oggi supera l’inflazione, ma molto di più. I salari mediani settimanali sono cresciuti del 7.4% e, per i neri e i giovani, l’aumento è stato assai maggiore: del 10% per entrambe le categorie, così come per tutti lavoratori più poveri – quelli del decimo e ultimo percentile – e addirittura dell’11.3% per i soli lavoratori neri (https://www.wsj.com/articles/biggest-pay-raises-went-to-black-workers-young-people-and-low-wage-earners-11674425793). D’altronde la percentuale di disoccupazione della popolazione nera non è stata mai così bassa (sotto il 5%) e il divario fra disoccupazione bianca e nera è in riduzione (https://www.nytimes.com/live/2023/05/05/business/jobs-report-economy-april). Un disastro agli occhi di chi imputa tutti i mali dell’economia statunitense ai lavoratori, i cui più alti salari farebbero crescere l’inflazione, che invece – si sa – è stata causata da tutt’altro: dal blocco della catena di rifornimenti (supply chain) durante la Covid, dai costi dell’energia in periodo di guerra, ma soprattutto dai sovraprofitti delle imprese, che, nel terzo quarto del 2022, hanno toccato il più alto punto mai raggiunto prima: 2543 miliardi.

La guerra condotta da Jerome Powell insieme agli economisti mainstream non è dunque nient’altro che la solita lotta di classe: quella dei capitalisti contro i lavoratori, laddove i primi non sopportano che i secondi migliorino – anche se di poco – la loro condizione, poiché temono di non riuscire a continuare ad aumentare i propri profitti. È questo ciò che si nasconde dietro l’innalzamento dei tassi di interesse che la Federal Reserve sta operando senza sosta, utili sul piano retorico al fine di ridurre l’inflazione, volti invece su quello pratico a creare quella recessione economica che dovrebbe finalmente portare alla riduzione dell’offerta dei posti di lavoro, causa di un mercato “sbilanciato” perché non esageratamente a favore del capitale. Nonostante tutti gli sforzi finora profusi dalla Fed – che, come si sa, hanno prodotto perfino il crack di una serie di banche creando il panico necessario a preoccupare gli investitori e a frenare nuovi prestiti di capitale, ciò che nell’ottica del rallentamento economico è evidentemente un bene – il tanto agognato raffreddamento dell’economia non si materializza. La lotta, dunque, continua e il 14 giugno un nuovo appuntamento presso la Federal Reserve per un altro possibile rialzo dei tassi di interesse ci dirà fin a che punto gli economisti vogliono spingere il conflitto.

Gli autori

Elisabetta Grande

Elisabetta Grande insegna Sistemi giuridici comparati all’Università del Piemonte orientale. Da oltre un ventennio studia il sistema giuridico nordamericano e la sua diffusione in Europa. Ha pubblicato, da ultimo, Il terzo strike. La prigione in America (Sellerio, 2007) e Guai ai poveri. La faccia triste dell’America (Edizioni Gruppo Abele, 2017)

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One Comment on “Usa: l’aumento dei salari preoccupa l’establishment”

  1. un elemento strutturale che gioca a favore dei lavoratori é l andamento demografico e il progressivo assottigliamento in termini numerici delle persone in eta lavorativa.
    diminuisce l offerta di lavoro e, a parita di domanda, questo aiuta i salari.

    lo si nota in italia in molti settori: manca manodopera. i giovani sono troppo pochi (piu esigenti)
    e in costante diminuzione. ma – solo da noi – non si nota un corrispondente aumento dei salari.

    la great resignation negli USA rimane inspiegabile: per definizione il capitale puo permettersi di stare inattivo
    per tempi lunghissimi mentre il lavoro non ha letteralmente risorse per sopravvivere se non é occupato.
    da questo deriva una differente forza contrattuale, a svantaggio del lavoro.

    forse molti di questi hanno trovato lavori migliori e quindi sono “dimissioni migliorative”?
    un fattore puo essere anche i sussidi introdotti nella pandemia che hanno consentito di rifiutare offerte indecenti.
    un po come da noi il reddito di cittadinanza, grazie al quale molti sono nelle condizioni
    materiali e con la dignita di poter rifiutare contratti di pseudoschiavitu ( 3-4 euro l ora, incostituzionali per una recente sentenza) che altrimenti sarebbero costretti ad accettare per mera questione di sopravvivevmza.

    PS non capisco come fanno statistiche USA dettagliate per bianchi e neri.
    sono schedati in base alla razza? e soprattutto perche cercare queste differenze? cui bono?

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