La 21ª udienza del 7-9 febbraio per il processo Kobane, che come le altre si svolge ad Ankara nel carcere di Sincan, è determinante per la sorte di HDP. Il Partito Democratico dei Popoli, che combatte per i diritti del popolo kurdo e aggrega la galassia dei movimenti turchi progressisti, ecologisti, femministi, LGBT e le minoranze etniche e religiose, rischia di essere cancellato prima delle elezioni del maggio prossimo. Migliaia di suoi politici, parlamentari, sindaci, sostenitori sono da anni in carcere.
Il caso Kobane si apre nel 2020. Nelle precedenti udienze il diritto di difesa è stato violato o negato mentre accadevano i fatti più strani, come l’invasione dell’aula da parte di agenti di polizia, dichiarazioni testimoniali segrete, il licenziamento e l’arresto (nella prima udienza) del presidente del Tribunale per attività criminale. Gli imputati sono 108, tutti di HDP: l’intero Comitato centrale del 2014, gli allora co-presidenti Selahattin Demirtas e Figen Yuksegdag (incarcerati già dal novembre 2016 per “terrorismo”, la co-presidente fu rilasciata nel 2021), la attuale co-presidente Pervin Buldan, deputati ed ex deputati, sindaci e ex sindaci. L’accusa chiede per tutti l’ergastolo aggravato. Tra i 29 capi di imputazione, la distruzione dell’unità dello Stato e dell’integrità del Paese e omicidi premeditati.
Il caso Kobane si fonda su un tweet pubblicato il 6 ottobre 2014. In esso HDP invitava a manifestare democraticamente in solidarietà con la popolazione di Kobane e contro l’embargo di Ankara. In quei giorni, la città kurdo-siriana di Kobane da sola si difendeva dalle preponderanti forze dell’Isis e la Turchia non consentiva di raggiungerla né ai volontari kurdi che volevano unirsi alla sua difesa dal confine turco né agli aiuti umanitari. Nonostante l’accanita resistenza delle forze kurde, nella notte precedente quel 6 di ottobre le bandiere nere dell’Isis sventolavano su alcuni edifici alla periferia della città. L’avanzata islamista era iniziata il 13 settembre, contrastata dalle Unità di Protezione popolare YPG e dalle Unità di Protezione donne YPJ, molto inferiori numericamente e mal armate, impegnate anche nella difesa e nell’evacuazione in Turchia di oltre 300 mila civili, fino alla chiusura dei confini. Tardivo e debole l’intervento dell’aviazione della coalizione occidentale che aveva bombardato l’Isis in Irak, restia a intervenire a Kobane per non irritare Ankara. In meno di tre settimane 350 villaggi del cantone di Kobane erano caduti in mano alla barbarie jihadista. «Si trattava di un esercito sofisticato, esperto e ben rifornito, un esercito che attingeva alle competenze, al personale e ai materiali del vecchio regime di Saddam Hussein. Si foraggiava per diversi miliardi di dollari attraverso tasse, donazioni, confische di aziende nonché vendite di petrolio e opere d’arte rubate. Utilizzava le proprie ricchezze per strutturare un’armata dotata di artiglieria, mortai, carri armati e mitragliatrici pesanti, cucine e infermerie da campo […]. Noi avevamo soltanto qualche migliaio di giovani volontari, uomini e donne. Non avevamo denaro e mancavamo delle attrezzature elementari, come binocoli e radio. Quanto alle armi, in genere erano più vecchie di noi». Così descrive le forze in campo uno dei cecchini protagonisti della resistenza di Kobane, Azad Cudi, nel libro Nel mirino. Le forze dell’Isis erano dotate di visori grazie ai quali avanzavano anche di notte.
In quello stesso 6 ottobre Staffan de Mistura, inviato dell’Onu in Siria, diramava un appello: «Kobane è sotto assedio da tre settimane. Gli abitanti sono tutti kurdi e si difendono tutti con grande coraggio. Adesso però sono molto vicini a non farcela più. Combattono con armi normali mentre l’Isis ha carri armati e mortai. La comunità internazionale li deve difendere perché non può più sostenere che un’altra città cada nelle mani dell’Isis. Ora serve un’azione concreta». Lo stesso Segretario generale delle Nazioni Unite Ban-ki-moon esprimeva «profonda preoccupazione» e dichiarava «serve un’azione internazionale». Nelle città europee si manifestava per Kobane, e un centinaio di kurdi irrompeva nel Parlamento di Bruxelles e otteneva di parlare con il presidente Martin Schultz.
In Turchia lungo il confine a meno di un chilometro da Kobane stazionavano 10 mila soldati e decine di carri armati, senza muoversi. Sui kurdi che volevano arrivare a Kobane in aiuto delle unità YPG/YPJ sparavano a morte le forze di sicurezza, mentre da altri punti della frontiera Ankara consentiva l’accesso ai convogli di foreign fighters jihadisti. «Kobane sta cadendo» dichiarava Erdogan «I raid aerei non servono». Durante le proteste che a partire dal 6 ottobre coinvolsero per diversi giorni tutta la Turchia i manifestanti erano aggrediti da gruppi jihadisti poi confluiti nell’Isis. Scontri e repressione causarono circa 50 vittime tra i manifestanti
La riconquista di Kobane inizierà il 14 ottobre. Kobane diventa la Stalingrado del Medio Oriente. Le forze kurde combattono casa per casa con l’appoggio della coalizione occidentale fino alla sua liberazione, il 26 gennaio 2015. Il presidente Erdogan non sopporta questo simbolo della resistenza kurda e da anni continua a prendere di mira la città ricostruita.
Il processo di Kobane che imputa al tweet di HDP tutti gli eventi accaduti in quei giorni di ottobre è legato alla sopravvivenza del partito. Il Tribunale ha inviato il fascicolo al pubblico ministero con la richiesta di una pronuncia obiter dictum. Si mira così a ottenere in anticipo un orientamento sfavorevole agli imputati per avvalorare l’istanza di chiusura presentata nel 2020 da MHP alla Corte Costituzionale, con un dossier di accuse tra le quali primeggia il caso Kobane. MHP che affianca al governo l’AKP di Erdogan, è un partito di estrema destra nazionalista vicino ai Lupi Grigi. Nel giugno 2021 la Corte Costituzionale aveva accettato di esaminare le accuse di MHP e il 5 gennaio scorso ha accolto un’altra sua richiesta, di bloccare i fondi destinati alla campagna elettorale di HDP. I partiti legali filo kurdi riescono a sopravvivere in media per 3-4 anni prima di essere eliminati. HDP sarebbe l’ottavo in circa trent’anni e si è certamente organizzato per creare una nuova formazione politica. Per questo MHP oltre allo scioglimento del partito ha chiesto alla Consulta di vietarne la ricostituzione sotto qualsiasi forma.
La Corte Europea per i Diritti Umani ha esaminato le accuse del caso Kobane contro Demirtas e ha concluso che né l’ex presidente né HDP hanno responsabilità per gli eventi. Una decisione che lascia indifferente Ankara, come quella di alcuni anni fa, che dichiarava ingiusto il processo contro Dermitas e ne chiedeva l’immediata scarcerazione. Sono numerose le risoluzioni europee di condanna nei confronti della Turchia per clamorose violazioni di diritti umani, a partire dal caso del leader kurdo Abdullah Ocalan, e rimangono inutili parole. Nessun fatto concreto, nessuna sia pur minima sanzione colpisce l’alleato atlantista, sempre più riverito dalla UE e dai singoli Stati e assecondato senza dignità nei suoi osceni ricatti.