Brasile. Lula: una vittoria dimezzata e incerta

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Con il 99,90% dei voti scrutinati nei 26 Stati del Brasile Lula ottiene il 48,41% dei voti (57.179.064) contro il 43,22% di Bolsonaro (51.052.598). Si va quindi al ballottaggio che si svolgerà il 30 ottobre. Non conosciamo ancora i dati relativi alle elezioni dei senatori e dei deputati federali, come dei governatori e dei deputati dei singoli Stati, importanti per conoscere gli orientamenti politici dell’elettorato oltre che le preferenze per il futuro Presidente del Brasile. La rivista Brasil de Fato pubblica i primi dati delle elezioni del Senato ed emerge una forte affermazione del partito di Bolsonaro (il Partito liberale – PL) e una secca sconfitta del partito di Lula (il Partito dei lavoratori – PT) (https://www.brasildefato.com.br/2022/10/02/mourao-damares-dino-e-camilo-quem-serao-os-27-novos-senadores-do-pais). La rimonta della destra è andata oltre alle aspettative, quasi 10 punti in più di quello che indicavano i sondaggi in questi mesi e ancora negli ultimi giorni.

Il significato di questo scontro politico, prima ancora che elettorale, è stato ben descritto da Leonardo Boff: «Il Brasile deve decidere il 2 ottobre quale futuro vuole per il suo Paese: quello tra civiltà e barbarie, tra modernità e arretratezza, tra la democrazia e un proto-fascismo, rappresentato dall’attuale presidente Jair Bolsonaro. Oppure sostenere il progetto opposto della continuità di rifondazione del Brasile dal basso verso l’alto, dall’interno verso l’esterno, con una democrazia che si apre al sociale, alla società organizzata, in particolare alle centinaia di movimenti sociali le cui lotte, solitamente, s’incentrano in diritti a loro storicamente negati, incarnati nell’ex presidente Lula.[…] È la prima volta nella storia che è in gioco il nostro destino» (https://leonardoboff.org/2022/09/24/a-crise-brasileira-e-os-pontos-de-inflexao-da-crise-mundial/).

Luiz Inácio da Silva, noto al mondo come Lula, ha già coperto l’incarico di Presidente della Repubblica dal 2002 al 2010. Nelle due legislature successive fu presidentessa della repubblica Dilma Rousseff, ma a metà della seconda legislatura fu estromessa dall’incarico con un voto di maggioranza del Parlamento senza alcuna accusa specifica se non di essere responsabile di tutte le corruzioni avvenute nel paese: per la sinistra fu il golpe blanco. Alle precedenti elezioni del 2018 la candidatura di Lula venne respinta perché condannato con una sentenza fondata su prove false dal magistrato Sergio Moro. Tutti i sondaggi lo davano vincente ma fu estromesso dalle elezioni presidenziali e quel giudice divenne ministro della giustizia nel Governo Bolsonaro. Poco dopo la condanna fu confermata in appello (venne respinta la richiesta degli avvocati di Lula di habeas corpus e il giorno prima della sentenza il comandante generale dell’esercito chiese ai giudici un “pronunciamento chiaro”). Lula si fece arrestare uscendo dalla sede del sindacato che aveva contribuito a costruire alcuni decenni prima convincendo migliaia di militanti a non opporsi. Rimase in carcere 580 giorni per essere poi liberato dalla Corte suprema quando emersero le prove dei falsi compiuti dal pubblico ministero Sergio Moro.

La sua candidatura era, in vista di queste elezioni, l’unica che avrebbe permesso di ricostruire la necessaria unità contro la destra brasiliana per la riconosciuta autorevolezza e lo spirito unitario che lo ha sempre guidato. Si diede vita così al movimento Vamos Juntos Pelo Brasil composto dai partiti PT, PSB, PCdoB, Solidariedade, PSOL, PV, Rede Sustentabilidade, dalle centrali sindicali, dai movimienti sociali e da personalità politiche indipendenti. Al momento del lancio della campagna, il 7 maggio, Lula ha motivato le ragioni che hanno portato tanti soggetti collettivi a sostenerla: «Il grave momento che attraversa il paese, uno dei più gravi della nostra storia, ci obbliga a superare ogni eventuale divergenza per costruire assieme un cammino alternativo alla incompetenza e all’autoritarismo che ci governano. […] È nostro dovere evitare ogni altro arretramento e restaurare la democrazia». E ancora: «Sì, ci proponiamo di unire i democratici di tutte le provenienze e sfumature, dalle più svariate traiettorie politiche, di tutte le classi sociali e di tutti i credi religiosi. Per affrontare e sconfiggere la minaccia totalitaria, l’odio, la violenza, la discriminazione e l’esclusione che pesano sul nostro Paese. Vogliamo costruire un movimento sempre più ampio che riunisca tutte organizzazioni e persone di buona fede che vogliono il ritorno della pace e dell’armonia nel nostro Paese». Questa impostazione era plasticamente evidente con l’indicazione a candidato alla vice Presidenza della Repubblica di Geraldo Alckmin, già governatore dello Stato di San Paolo e storico avversario di Lula alle elezioni presidenziali del 2006. Lula lo ha presentato citando Paulo Freire, il più grande educatore brasiliano di tutti i tempi: «Bisogna unire i divergenti, per affrontare meglio gli antagonisti».

Il 7 maggio è stato presentato in sintesi il programma della coalizione (https://rebelion.org/a-favor-de-brasil/). Eccone alcuni punti: «Nel 2003, abbiamo condotto la più grande di tutte le battaglie contro la fame […] e abbiamo vinto. Tutto ciò che abbiamo fatto viene distrutto dall’attuale governo. Il Brasile è tornato nella mappa della fame delle Nazioni Unite, da dove eravamo usciti nel 2014 per la prima volta nella storia. Non ci sarà sovranità mentre 116 milioni di brasiliani soffriranno di una sorta di insicurezza alimentare. Finché 19 milioni di uomini, donne e bambini andranno a letto affamati ogni notte, senza sapere se avranno un pezzo di pane da mangiare il giorno dopo. Oggi dobbiamo compiere di nuovo la stessa missione. […] Senza una causa, la vita non ha senso. Io e tutti noi che siamo insieme in questo momento, abbiamo una causa: ripristinare la sovranità del Brasile e del popolo brasiliano. Minacciano, smantellano, distruggono, mettono in vendita le nostre aziende più strategiche, il nostro petrolio, le nostre banche pubbliche, il nostro ambiente. Ripristinare la sovranità del Brasile è soprattutto […] garantire una piena democrazia per tutti. È difendere il diritto al cibo di qualità, un buon lavoro, un salario equo, il diritto all’occupazione, l’accesso alla salute e all’istruzione. Difendere la nostra sovranità è sostenere l’agricoltura familiare e i piccoli e medi produttori rurali perché nessun Paese sarà sovrano se non sosterrà chi produce il 70% del cibo che arriva sulle nostre tavole.[…] Difendere la nostra sovranità è difendere l’Amazzonia dalla politica di devastazione messa in atto dall’attuale governo. Durante i nostri governi abbiamo ridotto dell’80% la deforestazione in Amazzonia, contribuendo così ridurre le emissioni di gas serra, che causano il riscaldamento globale. Prendersi cura dell’ambiente è soprattutto prendersi cura delle persone. È cercare la pacifica convivenza tra sviluppo economico e rispetto della flora, della fauna e dell’uomo. […] Difendere la nostra sovranità è garantire ai popoli indigeni il possesso delle loro terre, che erano loro migliaia di anni prima dell’arrivo dei portoghesi e di cui si prendevano cura meglio di chiunque altro. […] Dobbiamo reinvestire in un’istruzione di qualità, dalla scuola materna al post-dottorato. Non ci sarà sovranità finché l’istruzione continuerà a essere trattata come una spesa non necessaria e non come un investimento essenziale per fare del Brasile un paese sviluppato e indipendente. […] È necessario avanzare verso una nuova legislazione che garantisca tutti i diritti dei lavoratori».

Bolsonaro ha difeso l’operato del suo Governo ma sin dal primo giorno ha ventilato che non avrebbe riconosciuto il risultato considerando i voti espressi con il sistema elettronico («sin voto impreso no habrá elecciones») anche se si era votato così già quando vinse nel 2018 (https://volerelaluna.it/mondo/2022/09/27/brasile-bolsonaro-e-le-elezioni-tra-farsa-e-tragedia/). Ha ribadito questa posizione più volte in incontri con gli ambasciatori accreditati a Brasilia e poi nell’incontro con le gerarchie delle chiese evangeliche. Ancora nell’ultimo confronto tra i candidati svolto nella televisione più importante a pochi giorni dal voto alla domanda della senatrice Soraya Thronicke (União Brasil) se avrebbe rispettato il risultato delle elezioni, Bolsonaro ha evitato di rispondere. Ma il pronunciamento più autoritario dell’attuale presidente è avvenuto il 7 settembre in occasione della celebrazione dei duecento anni di indipendenza del Brasile quando ha dichiarato che non è solo in gioco la presidenza ma i valori fondanti del rispetto religioso, della famiglia e della sovranità nazionale e per queste ragioni va spazzata via la banda dell’uomo dalle nove dita che si candida alle elezioni in Brasile (Lula ha nove dita, ne perse uno per un infortunio sul lavoro).

Questo atteggiamento ha favorito l’emergere di un clima di odio e di violenza che ha visto aggressioni e morti tra i militanti della sinistra e in particolare del partito di Lula, il PT; tra questi, il tesoriere del partito. Ma è scattata nella società brasiliana anche una reazione uguale e contraria e sette candidati alle elezioni presidenziali nelle tornate precedenti in alternativa a Lula o a Dilma, si sono pronunciati per il voto a Lula e per la democrazia. Soprattutto va sottolineata la dichiarazione di Fernando Cardoso, presidente del Brasile dal 1994 al 2002, che ha auspicato un voto di appoggio a chi si batte per ridurre la povertà.

Nell’incontro con elettori e militanti di domenica sera Lula ha diffuso ottimismo e coraggio: «Andiamo a vincere queste elezioni. Questo momento per noi è solo un rinvio». Ma la lotta sarà dura e l’esito non scontato.

Gli autori

Fulvio Perini

Perini Fulvio, sindacalista alla CGIL, ha collaborato con la parte lavoratori, Actrav, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

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