Per soli tre seggi, la destra (che di “centro” non ha più nulla) ha vinto le elezioni svedesi. Una maggioranza risicata, quindi, ma il risultato ha provocato un terremoto nell’intero sistema politico.
I Socialdemocratici guidati da Magdalena Andersson, la prima ministra uscente, restano, dopo oltre un secolo [sic!] il primo partito; sono stati al governo per settantatré degli ultimi novant’anni anni e nemmeno quando hanno perso le elezioni sono stati scalzati dal trono di partito più votato. Un caso unico, nei paesi cosiddetti democratici. In questa tornata hanno guadagnato oltre il 2% rispetto al 2018 (quando, con un pur invidiabile 28,26%, avevano toccato il peggior risultato dal 1921), tuttavia pagano errori strategici esiziali. La personalizzazione della campagna elettorale (che riflette la crescente americanizzazione della politica anche nel Nord Europa), con Magdalena Andersson ritratta in pose da Merkel svedese, e l’incitamento al voto utile («Siamo l’unico argine contro i Democratici di Svezia»: partito di estrema destra, nonostante il nome) hanno portato via voti non alla destra, ma agli alleati. Con l’eccezione dei Verdi, che erano dati al di sotto della soglia di sbarramento del sistema proporzionale (4%) e invece hanno conquistato il 5%, gli altri due partiti della coalizione sono andati male.
Il Partito della sinistra scende dall’8 al 6,7%; non ha funzionato il tentativo di mantenere il consenso ottenuto nelle grandi città (soprattutto tra donne con alto livello di istruzione e attivistə dei movimenti sociali), recuperando al contempo quel voto operaio che nei centri industriali si è spostato dai Socialdemocratici ai Democratici di Svezia. E a moltə non devono essere andati giù né il nazionalismo energetico (una sorta di “si salvi chi può”: la Svezia, in quanto paese esportatore di energia elettrica, può; pazienza per gli altri) né la scomparsa dal programma elettorale del clima. La reticenza della leader del partito, Nooshi Dadgostar, a impegnarsi su un problema che può alienare il voto operaio si era avvertita già al congresso di febbraio e si è poi concretizzata nella proposta, condivisa dalla destra, ovviamente, di abbassare il prezzo di benzina e diesel: gli obiettivi climatici possono aspettare. A disorientare l’elettorato di sinistra ha contribuito poi l’annuncio di Dadgostar di una partecipazione del partito al governo, in caso di vittoria: governo in cui, con i Socialdemocratici in posizione dominante e il Partito di centro a fare da ago della bilancia, la sinistra sarebbe stata del tutto ininfluente. Peraltro, tanto Magdalena Andersson quanto Annie Lööf, la brillante leader centrista, avevano perentoriamente escluso un esecutivo con i “comunisti” (benché sia Dadgostar che Ali Esbati, il numero due del Partito della sinistra, il comunismo l’abbiano apertamente rinnegato).
Tradizionalmente schierato con il centrodestra, il Partito di centro se ne è allontanato nel 2019, quando ha sottoscritto, insieme con i Liberali (che tuttavia l’anno scorso se ne sono ritirati), l’Accordo di gennaio con i Socialdemocratici: un appoggio esterno condizionato all’approvazione di riforme neoliberali. Perché questa intesa bipartisan? Dal lato dei Socialdemocratici, per riuscire a formare un governo, dopo quattro mesi di inutili trattative, anche a costo di rinunciare ad alcuni capisaldi del modello svedese; dal lato dei Centristi, per impedire la formazione di un governo di centrodestra, guidato, sì, dai Moderati di Ulf Kristensson, ma bisognoso dell’appoggio dei Democratici di Svezia. Uno dei manifesti più incisivi che ho visto in queste settimane a Stoccolma è stato forgiato proprio dal Partito di centro: sotto il volto sorridente di Annie Lööf si stagliava la scritta “Umanità, non razzismo”. L’intesa Centro-Socialdemocratici è stata non solo ribadita ma perfino formalizzata in questa campagna elettorale. Tuttavia è evidente che questa sinergia non è stata apprezzata dall’elettorato centrista. Lööf si è dimessa, dopo undici anni al vertice del partito, ed è verosimile che chi le subentrerà tornerà all’ovile (cioè alla destra), resta da vedere se già nei prossimi mesi o più gradualmente, in vista delle elezioni del 2026. In ogni caso il riposizionamento del Partito di centro rende ancora più problematica per i Socialdemocratici la tessitura delle alleanze.
Il probabile nuovo primo ministro sarà Ulf Kristensson, leader dei Moderati, politico mediocre, che, dopo le elezioni del 2018, ha cominciato, insieme con i Cristianodemocratici, a corteggiare i Democratici di Svezia. Ora, per una sorta di nemesi, non solo arretra, anche se lievemente (così come i Liberali e i Cristianodemocratici), ma viene superato – dopo tre decenni di primazia del suo partito all’interno del centrodestra ‒ proprio da coloro la cui retorica xenofobica e securitaria ha copiato in tutti i modi: i Democratici di Svezia, appunto. Se un loro incremento era previsto (e si è concretizzato nel 20,5%, tre punti in più rispetto al 2018), il fatto che siano diventati il secondo partito del paese rappresenta per moltə un trauma. La realtà tuttavia è che questo risultato è l’esito di un processo di lungo corso: dalla genesi neonazista alla lunga marcia nelle amministrazioni locali (soprattutto nel sud della Svezia), fino a conquistare il posto al sole in Parlamento nel 2010. A partire da allora, il partito ha attenuato i toni più estremisti, ma l’operazione di maquillage è stata non di rado compromessa dall’incriminazione di numerosi suoi esponenti per crimini di odio e reati violenti. È acclarato che tuttora molti dei suoi militanti hanno legami con gruppi di estrema destra come il Movimento di resistenza nordica.
Il successo dei Democratici di Svezia ha due volti: i loro indubbi “meriti” e la connivenza altrui. Jimmie Åkesson, leader incontrastato dal 2005, ha sfruttato i cospicui finanziamenti statali ai partiti per costruire una solida organizzazione, che si è gradualmente estesa su tutto il territorio (conquistando voti anche nelle regioni più settentrionali della Svezia, tradizionalmente rosse) grazie anche alla sua compattezza (non trapelano mai divisioni interne) e a un’abilità decisamente superiore a quella degli altri partiti nell’uso dei social media. Tuttavia a colpire, in questa saga di successo, sono i demeriti altrui. Qualcuno ha scritto che Åkesson “ha normalizzato” il suo partito; no, sono stati gli altri a sdoganarlo. E non solo a destra. Certo, sono stati i Moderati e i Cristianodemocratici a far saltare quel “cordone sanitario” che aveva tenuto i Democratici di Svezia fuori dal salotto buono della politica per anni, a differenza di quanto accaduto in Danimarca e Norvegia. Al contempo, se in queste elezioni il tema dominante è stato la criminalità delle gang di giovani immigrati (https://volerelaluna.it/mondo/2022/08/31/lautunno-sta-arrivando-legge-e-ordine-nel-modello-svedese/), con Welfare e crisi economica rimaste sullo sfondo (per tacere di Nato e guerra in Ucraina), la responsabilità prima va addossata ai Socialdemocratici, più realisti del re. Senza pudore, il loro ministro dell’immigrazione e dell’integrazione, Anders Ygeman, ha dichiarato di volersi ispirare ai suoi omologhi danesi, ad esempio concedendo poteri più ampi alla polizia (beninteso, solo nelle zone sospette, ossia abitate da immigrati) e stabilendo un tetto per i residenti non-nordici (!) nei “sobborghi degradati”; categoria, quest’ultima, che andrebbe forse discussa, dal momento che riduce a un unicum realtà variegate sul piano sociale e culturale. Il fatto che, per spezzare la segregazione residenziale, la mitica socialdemocrazia svedese pensi di ricorrere a criteri etnici fornisce l’ennesima riprova che, in tutta Europa, il campo riformista (?) e liberaldemocratico oggi non sa fare altro che rincorrere l’Åkesson o la Meloni di turno. Di fronte a ciò, il “voto utile” è, in realtà, un voto autolesionistico per le classi popolari.
Si è discusso molto sulle ragioni che spingono operai e operaie di sinistra a votare partiti dell’estrema destra, ma il punto è perché la borghesia li appoggia. I Democratici di Svezia, dimostrando ancora una volta doti strategiche più lungimiranti di quelle dei loro alleati come dei loro avversari, non solo non chiederanno per sé la carica di primo ministro (pur avendolo minacciato), ma è possibile che rinuncino perfino a entrare nel Governo. In cambio chiederanno molto, come è ovvio, in termini di posti (nei comitati parlamentari, nell’amministrazione statale) e di “riforme”. Ma è credibile che i loro alleati cedano obtorto collo? Il nuovo Governo porterà a termine il compito che il leader moderato Fredrik Reinfeldt aveva intrapreso tra il 2006 e il 2014: annientare definitivamente uno dei sindacati più forti del mondo, la LO (a sua volta non estranea alla svolta nazionalistica dell’agenda politica), e con esso ciò che resta del modello svedese, e permettere soltanto l’immigrazione “buona”: quella degli specialisti, da un lato, e degli schiavi, dall’altro. Aggiungiamoci una corsa al riarmo inaudita, al servizio degli Stati Uniti, e abbiamo il quadro completo di quello che è la borghesia europea oggi. Svezia compresa.