Effetto farfalla. Un anno dopo la fuga da Kabul

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Eppure l’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza

Tiziano Terzani

 

20 anni di guerra in Afghanistan: per rabbia e orgoglio o per lucida follia? Per comprendere quanto accadde nei giorni della fuga da Kabul – e mettere a fuoco la cornice di quanto accade nei nostri – bisogna fare un flashback, un salto indietro di oltre venti anni, tra l’11 settembre e il 7 ottobre del 2001, quando si scatenò in Occidente la furia vendicatrice per l’attacco terroristico alle Twin Towers di New York che prevedeva una guerra di occupazione contro uno Stato sovrano, in qualche modo riconducibile ai cosiddetti “nemici dell’Occidente”: la scelta cadde sull’Afghanistan, nonostante nessuno degli attentatori fosse cittadino afghano e il rifugio dove fu scovato e ucciso Osama Bin Laden, terrorista saudita che rivendicò quell’attentato, fu trovato dieci anni dopo nell’alleato Pakistan… Guerra alla quale – nonostante la contrarietà delle Nazioni Unite – i governi occidentali e la relativa stampa “libera” si accodarono, “senza se e senza ma”, guidati non dalla ragione e dalla saggezza ma da “la rabbia e l’orgoglio”, come il titolo di un famoso articolo sul Corriere della Sera – e poi del relativo libro – della giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, che ne sostenne e fomentò la crociata. Furono ignorate, invece, tutte le voci ragionevoli contrarie alla guerra a cominciare da quella di Tiziano Terzani, il grande giornalista e scrittore che, dalle stesse pagine del Corriere della Sera, ammonì «Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio». Fu ignorata anche la voce di Gino Strada, il fondatore di Emergency, che, il 7 ottobre del 2001 da Kabul, a Gianni Mura che lo intervistava telefonicamente per il quotidiano la Repubblica, sotto le bombe occidentali rispondeva: «È da quando siamo piccoli che ce la menano col si vis pacem para bellum dei latini. Non è vero, è vero l’esatto contrario. Se vuoi la pace prepara la pace. Con la guerra si prepara solo la prossima guerra». Furono ignorate anche le trecentomila persone che il 14 ottobre del 2001 marciarono da Perugia ad Assisi, sulle orme di Aldo Capitini, per manifestare il ripudio costituzionale della guerra; furono ignorate le cinquecentomila persone che manifestarono a Firenze il 9 novembre del 2002, anche contro l’ulteriore guerra di aggressione contro l’Iraq che già si stava preparando, con la costruzione delle false prove delle inesistenti “armi di distruzione di massa”; furono ignorate le tre milioni di persone che invasero pacificamente Roma il 16 febbraio del 2003, insieme a cento milioni di altre persone che manifestavano in tutte le capitali del pianeta, in quella che il New York Times definì «l’altra superpotenza mondiale», contro entrambe le guerre che avrebbero funestato i primi due decenni del XXI secolo. Le tremende immagini di quei giorni delle persone cadute dagli aerei USA in fuga da Kabul ai quali si erano disperatamente aggrappate hanno simbolicamente chiuso – centinaia di migliaia di morti dopo – il girone infernale aperto con le persone che si gettavano disperatamente dalle Twin Towers per sfuggire alle fiamme.

Chi ha vinto e chi ha perso. Per comprendere fino in fondo come si è arrivati a quelle scene di fuga dell’agosto 2021, bisogna ulteriormente allargare lo sguardo sul rapporto degli Stati Uniti con i talebani che non cominciava ventuno anni fa con l’invasione armata dell’Afghanistan, bensì negli anni ’80 del secolo scorso quando il presidente Ronald Reagan incontrava ripetutamente allo “studio ovale” e finanziava abbondantemente i mujaheddin (i guerrieri santi) – compreso un certo Bin Laden, allora alleato – perché facessero la jihād (la guerra santa) contro la Repubblica Democratica dell’Afganistan, in funzione anti sovietica. Che questo avrebbe comportato la fine dell’emancipazione delle donne afghane, conquistata in quegli anni di governi filo-socialisti, era l’ultima delle preoccupazioni occidentali. Fino all’occupazione militare di quel martoriato paese nel 2001. Tutte le guerre del resto passano e si svolgono, anche, tragicamente sui corpi delle donne. In quella guerra chiusa nell’agosto 2021, dunque, non hanno vinto gli statunitensi, che dopo vent’anni di occupazione militare e 2.300 miliardi di dollari bruciati sono tornati a casa lasciando il caos dietro di se. Non hanno vinto gli afghani, che hanno avuto centinaia di migliaia di vittime tra il terrorismo della guerra e la guerra del terrorismo e sono stati lasciati in balìa dei signori dell’oppio. Non hanno vinto i talebani, che hanno preso in mano il governo di un paese martoriato e devastato. Non hanno vinto le donne afghane, che erano state rigettate nel medioevo proprio da quelli che venti anni fa si erano imposti come “liberatori”, salvo abbandonarle al loro destino quando hanno deciso che era ora di andarsene. In Afghanistan hanno perso tutti, tranne coloro che nelle guerre vincono sempre: il complesso militare-industriale, quell’industria bellica che in vent’anni di guerra ha visto straordinariamente lievitare i propri profitti di morte, raddoppiandoli, e il proprio potere di influenza sulle decisioni dei governi.

Il fallimento della strategia bellica dichiarata e la nostra falsa coscienza. Come hanno ulteriormente dimostrato gli attentati all’aeroporto di Kabul nei giorni della precipitosa smobilitazione statunitense, la guerra in Afghanistan non è stata efficace neanche nella mera “attività anti-terrorismo” indicata dal presidente Biden come suo scopo reale. Anzi le quasi 200 vittime dell’ultimo attacco dell’agosto 2021 a Kabul, mentre gli statunitensi prendevano letteralmente il volo, si sono andate ad aggiungere alle centinaia di migliaia di vittime del terrorismo, dilagato in tutto il mondo nei vent’anni di guerra globale ad esso. Il terrorismo della guerra non solo non ha fermato ma ha potenziato la guerra del terrorismo: non solo non è servita ad esportare e costruire alcuna democrazia – né in Afghanistan, né in Iraq, né in Libia, né da nessun’altra parte dove questo era stato proclamato – ma, contraddicendo la retorica bellica, è stata contro-produttiva anche rispetto all’obiettivo minimo di combattere quel terrorismo che invece si è moltiplicato e ha colpito ovunque, come registra anno dopo anno il Global Terrorism Index. È stato il fallimento completo di una strategia irrazionale rispetto agli obiettivi dichiarati. La verità, dunque, è che – nonostante i fiumi di retorica versati per due decenni – i venti anni di guerra in Afganistan sono serviti, di fatto, solo a riversare migliaia di miliardi nelle casse dell’industria bellica internazionale. Che hanno prodotto sangue, terrore e caos, in un prevedibile – e previsto, come abbiamo visto – crescendo di tragedia e follia collettiva.

Il ventennale dimenticato dell’inizio di una guerra vergognosa. Come insegna Johan Galtung, tra le diverse dimensioni dell’esercizio diretto e indiretto della violenza, la più profonda e pervasiva è la violenza culturale, che genera l’immaginario simbolico e produce senso comune. Una delle “armi” più potenti della violenza culturale è la costruzione e l’uso selettivo della memoria pubblica condivisa, che decide e separa ciò che dev’essere ricordato da ciò che, invece, non deve esserlo. Per esempio, dopo l’agosto della fuga da Kabul, l’11 settembre 2021, nell’occasione del ventennale degli attentati terroristici a New York che, con il crollo delle Torri gemelle, hanno provocato 2.977 vittime, la stampa internazionale per giorni ha ricordato quell’evento con dirette, edizioni straordinarie di magazine, approfondimenti di varia natura: una memoria giustamente celebrata dopo due decenni pieni. In conseguenza di quell’attacco kamikaze, poche settimane dopo, già il 7 ottobre 2001 cominciavano i bombardamenti anglo-statunitensi su Kabul con i quali iniziava la ventennale e illegale guerra di occupazione occidentale durata, appunto, fino all’agosto 2021: stesso e conseguente anniversario pieno ma memoria – al contrario – rimossa, senza alcun bilancio, valutazione pubblica o riconoscimento di responsabilità politiche per l’immane disastro globale.

Un’altra “guerra giusta” da raccontare. Poiché quella occupazione militare, anziché la libertà duratura annunciata (Enduring freedom si chiamava la guerra), ha distrutto tutto per non cambiare niente è evidente che per i governi che l’hanno voluta e finanziata per due decenni e per i media mainstream che ne hanno, inizialmente, sostenuto e legittimato l’avvio e, successivamente, ignorato crimini e misfatti, «è bene e pio si taccia ormai anche il nome». Si può ravvisare, inoltre, in quel silenzio anche la continuazione di un pesante e strutturale razzismo informativo in base al quale non tutte le vite sono ugualmente degne di lutto e di racconto: a fronte dei fiumi di retorica versati per le vittime occidentali dell’atto di guerra terrorista, le infinitamente superiori vittime afghane ed irakene di vent’anni di terroristici atti di guerra, delle quali non si conosce ne il nome ne il numero esatto, non solo non sono state degne di narrazione mentre i fatti accadevano ma non sono neanche degne di memoria. Del resto solo poche settimane dopo, tra gennaio e febbraio del 2022 – dopo aver ignorato i profughi afghani, irakeni, siriani e pachistani respinti nel gelo invernale ai confini tra Bielorussia e Polonia, vittime delle nostre guerre – il circo mediatico avrebbe trovato un’altra “guerra giusta” da raccontare, momento per momento, esplosa all’improvviso sugli schermi mediatici. Quella di difesa del governo ucraino dall’occupante russo, senza averne mai narrato in nessun modo gli “antefatti”, come si studiavano a scuola prima di affrontare con l’Iliade un’altra cronaca di guerra decennale, di alcune migliaia di anni prima. Naturalmente, nessun antefatto può giustificare l’occupazione militare russa, ma le relazioni internazionali sono un sistema complesso, dove il «battito d’ali di una farfalla in Brasile può generare un uragano nel Texas». Così come un missile nucleare lanciato da un continente può sortire effetti devastanti in un altro, come si è ripreso a minacciare tra le potenze atomiche, ma in modalità estremamente meno elegante – quanto più semplificata e distruttiva – di una farfalla. Meglio non dimenticarlo.

Gli autori

Pasquale Pugliese

Pasquale Pugliese, nato a Tropea, vive e lavora a Reggio Emilia. Di formazione filosofica, si occupa di educazione, formazione e politiche giovanili. Impegnato per il disarmo, militare e culturale, è stato segretario nazionale del Movimento Nonviolento fino al 2019. Cura diversi blog ed è autore di “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” e "Disarmare il virus della violenza" (entrambi per le edizioni goWare).

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