L’Ucraina e il futuro dell’Europa

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Quando il presidente degli Stati Uniti chiama il presidente della Russia “un macellaio” che deve essere rimosso dalla propria carica opta per un prolungamento del conflitto, con i conseguenti orrori in atto. Né le successive interpretazioni da parte dei suoi collaboratori (che rasentano delle smentite) bastano a recuperare, almeno nell’immediato, una conclusione delle ostilità in termini di compromesso. Perché ciò avvenga occorre una presa di coscienza da parte europea – come e al di là delle parole spese da Macron – che questa è una guerra condotta dalla Russia di Putin ma incoraggiata dal Governo degli Stati Uniti, e non solo dal suo presidente. Una guerra che ha due bersagli: l’Ucraina in quanto parte dell’Europa e l’Europa nel suo insieme, da ricondurre sotto il tallone della NATO, dipendente da risorse energetiche più costose fornite o controllate dagli Stati Uniti, riarmata nel quadro dell’Alleanza senza velleità strategiche proprie. Insomma, un rilancio della Guerra fredda, attraverso una conflittualità connivente tra due potenze imperiali, tanto più pericolose perché storicamente declinanti.

Il 30 novembre 1939 Stalin aggredì la Finlandia neutrale, approfittando dell’alleanza temporanea con Hitler, sancita dal patto Ribbentrop-Molotov che, nei mesi precedenti, aveva costituito la premessa per l’inizio della Seconda guerra mondiale. Lo scopo di Stalin era quello di trasformare la Finlandia in uno Stato vassallo, presieduto dal presidente del partito comunista finlandese, allora di fede sovietica, di nome Otto Kuusinen. Tuttavia, la straordinaria difesa finlandese – che utilizzò a suo favore quel “generale inverno” che aveva contribuito alla sconfitta di Napoleone e, in un non lontano futuro, avrebbe contribuito a quella di Hitler e di Mussolini –, insieme con la solidarietà soprattutto della vicina, socialdemocratica e pure neutrale Svezia, costrinse Stalin ad accettare una pace di compromesso. La Finlandia rimase neutrale e indipendente, Otto Kuusinen dovette emigrare a Mosca e Stalin accontentarsi di una piccola parte dei territori finlandesi, per poi dedicarsi alla conquista dei Paesi baltici come beneficio del patto di non aggressione con Hitler, a sua volta impegnato a conquistare la Polonia. Dal punta di vista umano quell’aggressione, dimenticata nelle pieghe della Seconda guerra mondiale, era costata circa 200.000 morti, dei quali la maggioranza di nazionalità sovietica. Dopo circa quattro mesi di guerra, prevalse la parola d’ordine, lanciata dalla vicina Svezia: “Finlands sak aer” (La causa della Finlandia è la nostra).

Di fronte a un’altra guerra d’aggressione, a ottant’anni di distanza, non possiamo che dichiarare il nostro orrore per le vittime di qualsiasi guerra: oggi, innanzitutto civili, migranti ucraini in fuga, anche reclute russe. Le devastazioni causate da Putin ci stanno aprendo gli occhi con molto ritardo anche a quelle vittime nascoste, che tuttora crescono nello Yemen e che, a centinaia di migliaia, sono state causate da interventi militari, in violazione di ogni norma internazionale – le così dette coalitions of the willing (coalizioni dei volonterosi), guidate dagli Stati Uniti – in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, di cui anche noi siamo stati partecipi comprimari e/o fornitori di armi.

Nello stesso tempo non possiamo non fare nostra quella ormai defunta parola d’ordine, ispirata dalla volontà di un popolo che, a grande maggioranza, rifiuta di sottomettersi all’aggressore, rinunciando alla propria indipendenza: in quanto europei, la causa dell’Ucraina è la nostra. Perché l’Ucraina è parte dell’Europa, attaccata anche in quanto tale. Non sfugga il fatto che la Russia di Putin, con la propria aggressione, ha riesumato la divisione dell’Europa che ha caratterizzato la Guerra fredda, nel non abbastanza breve secolo scorso. Come non può sfuggirci il fatto che quanto sta avvenendo in Ucraina restituisce alla NATO una funzione che aveva perso con la caduta del Muro, restaurando, almeno in questa fase, un principio gerarchico, fondato su una presenza militare statunitense, anche nucleare, su territorio europeo che, più ancora che in passato (ricordate il principio della doppia chiave?), sfugge al controllo degli Stati – in primis il nostro – che la ospitano. Come constata la prima pagina del New York Times del 14 marzo: «La guerra in Ucraina ha sollecitato la più grande revisione della politica estera americana […] infondendo agli Stati uniti un nuovo senso di missione e mutando i suoi calcoli strategici nei rapporti con i propri alleati e avversari». Come spiega Alessandro Portelli (Quanto è grande e dove arriva il cuore dell’Europa?, il manifesto, 16 marzo), denunciare la graduale espansione della NATO, fino ai confini della Russia, non è per giustificare la politica di Putin, bensì, al contrario, per imputargli un’ulteriore forma di aggressione nei nostri confronti, nel tentativo, per ora riuscito, di reinstaurare un bipolarismo, a un tempo pericoloso e connivente, che riduce l’Europa a terreno di conflitti e di conquista di soggetti militarmente più forti – oggi Russia e Stati Uniti, in prospettiva la Cina – e priva mezzo miliardo di persone di una voce a livello globale.

Per contribuire a far cessare lo scempio in atto di vite umane, l’Europa deve trovare la sua unità politica e prospettiva strategica, ancora pochissimo presente nei consessi di Bruxelles, nella formulazione di un programma di pace che salvaguardi e accolga i fuggiaschi da questa e da ogni guerra (ripartendone equamente l’onere, senza distinzione di provenienza e di colore della pelle) e che riconosca la pronta adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, preservandone l’indipendenza e la neutralità simile ad altri Stati membri, opponendosi alle sintomatiche pressioni per l’adesione anche della Svezia e della Finlandia alla NATO (non a caso incoraggiate da provocazioni di Mosca nei loro confronti) e riconoscendo a quella parte dell’Ucraina a prevalente vocazione e lingua russa diritto di autodeterminazione. D’ora in poi chi pone al primo posto la ricerca della pace dovrebbe ricordare il monito del cardinale Martini, secondo cui è necessario rinunciare a una parte di ciò che si ritiene giusto. Mosca accentuerebbe così il proprio isolamento sancito dall’Assemblea Generale dell’ONU, spingendosi oltre le pretese a suo tempo definite da Stalin a conclusione della propria aggressione alla Finlandia. E la sede naturale per la ricerca di una soluzione pacifica e un ritorno alla legalità internazionale resta quella dell’ONU (cfr. Luigi Ferrajoli su il manifesto del 16 marzo: https://volerelaluna.it/rimbalzi/2022/03/23/per-la-pace-in-ucraina-le-nazioni-unite-in-seduta-permanente/), ove l’orientamento multipolare della Cina potrebbe risultare determinante.

Quanto alla rivendicazione di diritti e libertà umane, esse risultano assai più credibili nella bocca di coloro che protestano e subiscono conseguenti repressioni in Russia che non in quelle dei governanti occidentali. Si riconosca il valore etico e politico della resistenza ucraina, senza aggiungere guerra alla guerra, armi alle armi, con riferimenti impropri a quella, ad esempio italiana, che si sviluppò militarmente contro un esercito nazista ormai in fuga. Piuttosto, si valutino forme di presenza e testimonianza solidale, da parte di governanti, parlamentari e volontari europei, in un teatro ancora di guerra, come prontamente suggerito da Alex Zanotelli e altre persone impegnate per la pace.

L’articolo amplia e aggiorna quello pubblicato su il manifesto del 19 marzo

Gli autori

Gian Giacomo Migone

Gian Giacomo Migone ha insegnato Storia dell'America del Nord e Storia delle relazioni Euro-Atlantiche nell’Università di Torino dal 1969 al 2010. Senatore della Repubblica per tre legislature (tra il 1992 e il 2001), eletto nelle liste del Pds e poi dei Ds, collabora attualmente con numerose riviste e quotidiani. Nel 1984 ha contribuito a fondare “L’Indice dei libri del mese” di cui è tuttora membro del Comitato editoriale e del Consiglio di amministrazione.

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One Comment on “L’Ucraina e il futuro dell’Europa”

  1. Illustre professor Migone,
    mi dispiace leggere, nell’ultimo capoverso, una nuova denigrazione della Resistenza italiana: che, secondo le sue parole, “si sviluppò militarmente contro un esercito nazista ormai in fuga”. Non so se chi andò partigiano sapesse già, nell’autunno del 1943, che i nazisti ormai erano in fuga – ammesso che ciò sia storicamente vero. Che, insomma, la guerra di resistenza era già vinta. Non so se, quando salirono in montagna, Nuto Revelli, Primo Levi, Beppe Fenoglio, Giorgio Bocca, Eligio Battù fossero già a conoscenza di avere vinto. Purtroppo, non è la prima volta che in questo sito si denigra – certo involontariamente – la Resistenza. Tanto vale smettere di celebrare il 25 aprile. Grato dell’ospitalità, porgo rispettosi saluti. Piero meaglia

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