1.
La pena di morte di Stato, per quanto inaccettabile possa apparire alla sensibilità moderna, è ancora parte ‒ si sa ‒ dell’armamentario (e il termine è particolarmente pertinente oggi) del diritto penale statunitense. Nonostante le patenti di arretratezza culturale che gli Stati Uniti affibbiano ad altri popoli per le loro politiche relative ai diritti umani, il paese che si vuole leader del mondo si caratterizza non soltanto per ammettere l’omicidio di Stato, ma altresì per la sua imposizione attraverso un sistema procedimental-processuale che, al di là della celebrata parità di armi fra accusa e difesa, vede l’imputato, in particolare se povero, in condizioni di estrema debolezza di fronte a una parte pubblica accusatrice dotata di mezzi capaci di schiacciarlo con facilità. È soprattutto nella fase che precede il dibattimento, quella delle indagini, che il potere della polizia e della pubblica accusa (il prosecutor) sovrasta l’imputato, il quale ‒ a differenza dei primi ‒ non gode degli strumenti che consentono alla parte pubblica di raccogliere le prove. Non solo non gode per esempio ‒ come è ovvio ‒ del potere di sequestro o di intercettazione e non ha a sua disposizione il gran jury per ottenere documenti e testimonianze, ma, se povero, spesso non può contare neppure su un difensore capace e su investigatori privati o su consulenti tecnici, tanto meno di qualità. Non può inoltre far affidamento neanche sulla possibilità che la parte pubblica ‒ rigorosamente avversaria ‒ cerchi gli elementi a discarico o lo aiuti a far parlare prima del dibattimento qualcuno che egli pensa potrebbe testimoniare a suo favore. Lo svantaggio con cui l’imputato povero affronta il processo è accentuato dal fatto che la sua possibilità di conoscere prima del dibattimento gli elementi a carico (cd. discovery) è ridotta ai minimi termini. La sua difesa ‒ in un processo in cui la verità scaturisce dal puro scontro fra le due parti e non da una ricerca affidata al giudice con l’aiuto di tanti attori (come avviene nel nostro sistema) ‒ non può allora essere proattiva, giacché di regola egli non ha elementi a discarico da presentare. E non può neppure essere meramente reattiva, poiché gli elementi a suo carico sono conosciuti troppo tardi per essere contrastati opportunamente, soprattutto se il compito spetta a un avvocato del gratuito patrocinio, troppo spesso mal pagato o incompetente. In simili condizioni la condanna di un innocente povero non rappresenta affatto un’eventualità remota, e ciò in particolare se il rappresentante dell’accusa a caccia di voti per la sua rielezione usa il caso a scopi politico-populisti per dimostrare la sua fermezza nei confronti di chi delinque. Quando poi la pena irrogata è addirittura la morte siamo di fronte a un omicidio di Stato davvero spregiudicato.
2.
È in questo quadro, pur spesso celebrato come l’espressione di un sistema a scarsa ingerenza statale (ed associato a un ideale di libertà), che trova posto la vicenda di Melissa Lucio, arrestata a 38 anni e mamma di 14 figli, accusata di avere ucciso a botte la sua bimba di due anni il 17 febbraio del 2007. Quando l’ambulanza chiamata dalla famiglia giunge nel povero appartamento in cui vivono 9 figli, Melissa e il compagno, la piccola Mariah è già morta, a causa di una caduta dalle scale ‒ afferma la mamma ‒ avvenuta 24 ore prima. La casa in cui la famiglia si è appena trasferita non ha molte scale, a differenza di quella in cui essa viveva il giorno precedente, ma Melissa si dimentica di parlare del trasloco appena avvenuto a chi si prende cura della bambina ormai esanime. Il sospetto che le cose siano andate in modo differente da quanto affermato da Melissa convince i soccorritori a denunciare il fatto alla polizia, che il giorno dopo arresta la donna sottoponendola a un terzo grado senza la presenza del difensore. Durante l’interrogatorio ‒ che dura dalle 10 di sera alle 3.30 di notte e che vede protagonista una donna che si è svegliata alle 6 del mattino, che non ha mangiato, che è provata dagli eventi e che è incinta di due gemelli ‒ vengono usate tecniche tipicamente manipolatorie, attraverso le quali i poliziotti (che si alternano in modo a volte minaccioso, a volte fintamente comprensivo) ottengono infine una specie di confessione da parte di Melissa, che sembra cedere di fronte a coloro che non le lasciano scampo. Il responsabile dell’accusa della contea di Cameron in cui si sono svolti i fatti, Armando Villalobos, è in corsa per la rielezione nel suo ufficio il novembre successivo e ritiene particolarmente importante dimostrare al suo elettorato che sa punire nella maniera più severa chi maltratta i bambini. Quale migliore pubblicità, in fondo, che quella di essere il primo uomo a mandare a morte la prima donna latina? Per questo non esita a domandare per la donna la pena capitale alla giuria, che, nel luglio 2018, la ritiene responsabile dell’omicidio della piccola, sulla scorta delle testimonianze dei poliziotti e dell’anatomo-patologa che, secondo quanto risulta dalle carte, aveva effettuato l’autopsia partendo dall’assunto che, dati i lividi trovati sul corpo della bambina, la mamma avesse abusato di. Nessun altro elemento di prova viene presentato a suffragare l’ipotesi non solo che siano stati effettivamente quei lividi ad aver causato la morte della bimba (e non la botta in testa che, secondo Melissa, la bimba aveva riportato dopo la caduta) ma neppure che fosse stata proprio lei, Melissa, a picchiare la piccola Mariah.
La famiglia, in un documentario girato dopo il processo per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto all’esecuzione (https://www.amazon.com/State-Texas-vs-Melissa/dp/B08KGR4K4P), afferma che Melissa era una mamma paziente e non violenta aggiungendo che la bambina era ripetutamente caduta dalla lunga rampa di scale a causa di un difetto a un piede e che proprio questo aveva convinto Melissa e il compagno a cambiare di casa; anche i fratelli spiegano di aver visto la bambina cadere il giorno prima dalle scale e una sorella dice addirittura di averla spinta. Ma nulla di tutto ciò era stato presentato a processo. Il difensore, Peter Gilman, non aveva alcuna dimestichezza con casi capitali. In Texas, infatti, per quanto negli ultimi decenni si sia cercato di migliorare la qualità della difesa degli indigenti (in particolare se a rischio di pena di morte), molte contee, fra cui la Cameron County, non avevano ancora un public defender, ossia un ufficio preposto stabilmente della difesa dei poveri, e gli avvocati venivano assunti caso per caso (così detti court-appointed attorneys). A detta dello stesso prosecutor Villalobos nel 2006: «La lista degli avvocati competenti per i casi capitali che abbiamo a disposizione è molto ridotta». In ogni caso le scarse capacità di Gilman – o il suo desiderio di avere buoni rapporti con un ufficio, quello dell’accusa, da cui sarebbe poi stato assunto ‒ sono provate anche dalla sua ammissione iniziale di fronte alla giuria che Melissa avrebbe picchiato la sua bambina. Nel caso di Melissa Lucio la difesa è stata talmente di basso livello che Sandra Babcock, professoressa alla Cornell Law School e fondatrice del Cornell Center sulla pena di morte nel mondo, dichiara: «Sono trent’anni che mi occupo di casi capitali, ma questo è di gran lunga quello che si presenta meno fondato di tutti». Come se non bastasse, nel 2014, dopo la condanna di Melissa, il rappresentante dell’accusa, Armando Villalobos, verrà condannato a 13 anni di carcere per aver accettato 100.000 dollari in cambio di clemenza in una serie di processi precedenti. E anche la competenza dell’anatomo-patologa sarà sconfessata in un diverso caso in cui la testimonianza della dottoressa aveva condotto alla condanna a morte di uomo accusato di avere ucciso un bimbo di un anno.
Nulla di tutto ciò consente, in terra nordamericana, di rimettere in discussione il verdetto e la pena inflitta a Melissa. Nel sistema statunitense, una volta conclusosi con la condanna il processo di primo grado, le possibilità che il giudizio sia rivisto sono estremamente ridotte. Sul fatto non si ritorna, perché i giurati – che non motivano il loro verdetto ‒ sono i depositari ultimi della verità fattuale così come emersa di fronte a loro dallo scontro dei due contendenti: accusa e difesa. L’unica via per cassare la condanna e aprire la strada a un nuovo giudizio di primo grado è individuare un errore di diritto nello svolgimento del processo, sempre che esso non venga considerato harmless, cioè irrilevante, perché anche in sua assenza la giuria avrebbe probabilmente condannato. Ma nel caso di Melissa Lucio né in sede di impugnazione diretta alla Corte di appello texana, né in sede di così detto “attacco collaterale” (ossia di habeas corpus federale in primo grado) ne era stato individuato alcuno. Finalmente la Corte di appello federale del quinto circuito, nel 2019, ha rilevato l’illegittima esclusione, da parte del giudice, di una delle poche prove che l’avv. Gilman aveva fatto valere a sostegno della tesi difensiva e l’importanza che essa avrebbe potuto avere per cambiare il verdetto. Si trattava della testimonianza di uno psicologo, John Pinkerman, che avrebbe potuto spiegare alla giuria quanto facilmente manipolabile fosse, durante l’interrogatorio che aveva costituito la principale prova a suo carico, una donna come Melissa, abusata per tutta la vita, prima dalla famiglia di origine (da cui era scappata a 16 anni) e poi dai mariti o compagni. Pinkerman avrebbe potuto indicare le ragioni del suo atteggiamento remissivo, che l’avevano infine fatta cedere alle pressioni della polizia, descrivendo gli effetti della “sindrome della donna vittimizzata”. La testimonianza di Pinkerman ‒ dice la Corte ‒ sarebbe stata idonea a far nascere nei giurati seri dubbi in ordine alla credibilità dell’interrogatorio ed è per questo che ritiene di dover annullare la condanna. L’accusa impugna, però, la decisione dei tre giudici della Corte d’appello federale di fronte alla stessa Corte in composizione allargata e questa, nel febbraio del 2021, con una maggioranza di 10 a 7, rovescia la pronuncia precedente, adducendo ostacoli procedurali introdotti da una legge voluta da Bill Clinton, in un momento in cui i democratici avevano limitato le possibilità di impugnazione in habeas corpus in particolare nei casi capitali (si tratta dell’Anti-Terrorism and Effective Death Penalty Act, AEDPA, del 1996).
3.
L’esecuzione della prima donna latina, trattenuta fra l’altro fino ad adesso in solitary confinement, ossia in isolamento totale ‒ una delle condizioni carcerarie più dure che si possano immaginare ‒, è fissata per il prossimo 27 aprile. Nonostante le proteste provenienti da tante parti del paese e l’intervento dell’Inter-American Commission on Human Rights (IACHR) che, riconoscendo la debolezza delle prove contro la donna, ha chiesto agli Stati Uniti di posticipare la sua esecuzione fino a quando non sia chiarita la sua colpevolezza, le strade per bloccare l’omicidio di Stato della sfortunata Melissa Lucio paiono chiuse. Non la potrà aiutare la Corte Suprema federale, che già nel 1993, nel famoso caso Herrera v. Collins, ha dichiarato che sul fatto non si ritorna, neppure se dopo la condanna si scoprono nuovi elementi capaci di provare l’innocenza del condannato. Se quest’ultimo ha ricevuto un giusto processo, ossia un processo in cui sono state rispettate le regole del gioco, l’essere innocente in prigione non è incostituzionale, ha in quel caso dichiarato la SCOTUS (sul punto un ottimo libro è: Actual Innocence: When Justice Goes Wrong and How to Make it Right, di Barry Scheck, Jim Dwyer e Peter Neufeld, del 2000). Uno spiraglio si è poi aperto nel 2009 per i condannati a morte, quando a Troy Davis, condannato alla pena capitale in Georgia, è stato concesso di dimostrare che nuovi e sopraggiunti elementi potevano provare la sua innocenza: si badi la sua innocenza, non la sua non colpevolezza, e la differenza non è di poco conto. L’asticella dello standard probatorio è infatti talmente alto che, nonostante molti testimoni avessero ritrattato le accuse presentate al processo, Troy Davis non riuscì a convincere la Corte della sua innocenza e la sua condanna a morte fu confermata. Neppure la seconda strada, tutta politica, per evitare di andare a morte sembra percorribile da Melissa. Si tratta della grazia o della commutazione della pena, che solo il governatore texano Abbott potrebbe concederle, ciò che difficilmente accadrà.
Il destino di Melissa Lucio, “colpevole” soprattutto di essere troppo povera, pare dunque segnato e il 27 aprile gli Stati Uniti daranno ancora una volta prova di quanto barbaro possa essere un paese che non solo prevede ed esegue la pena di morte, ma il cui sistema processuale penale permette con facilità di condannare senza scampo chi è troppo debole per difendersi. Un sistema che tuttavia, come Pangloss nel Candide di Voltaire, ci ostiniamo a celebrare (e cercare di imitare) come il migliore dei mondi possibile.
I peggiori: gli incivili convinti di poter insegnare la civiltà agli altri
È noto che negli USA chi non può pagare una difesa, resta in carcere per anni, anche fino all’esecuzione capitale. Certamente nel braccio della morte, ci sono degli innocenti.