La crisi umanitaria esplosa in questi giorni ai confini dell’Europa ci spinge, per l’ennesima volta, a riflettere sull’efficienza delle politiche adottate dall’Unione in questi ultimi anni.
Un accordo perverso
Sono ormai sette anni che l’Unione Europea, malgrado contestazioni di ogni tipo, insiste nel restare fedele al noto accordo firmato con Ankara nel 2014, documento che definisce la Turchia un “Paese terzo sicuro” verso il quale respingere i migranti. Si tratta dello stesso accordo che permette alla Turchia di tenere sotto controllo i movimenti transfrontalieri di migranti in cambio di un sostanzioso sostegno economico. Un Paese, la Turchia, che non ha mai voluto firmare per intero la Convenzione di Ginevra e che dimostra poca trasparenza sull’uso delle risorse finanziarie ricevute. Un Paese nel quale i rifugiati sono spesso vittime di emarginazione, violenza, sfruttamento e atti xenofobi e dove, secondo i dati sulla dispersione scolastica, moltissimi sono i minori stranieri fuori dal radar della scuola.
Ankara è anche in Bielorussia
In questi giorni, durante la crisi umanitaria scoppiata al confine tra Polonia e Bielorussia, si torna a parlare della Turchia. Secondo una relazione preparata dalla Commissione europea, resa pubblica lo scorso 14 novembre dal quotidiano tedesco Die Welt, l’arrivo dei migranti al confine polacco-bielorusso sarebbe stato orchestrato da Minsk e Ankara. Si tratta di un documento riservato in cui si parla di una collaborazione avvenuta tra le compagnie aeree Belavia, bielorussa, e THY, turca. Secondo la Commissione europea, venivano organizzati, ogni settimana, dai quattro ai sette viaggi e ogni volta venivano portati circa 180 migranti passeggeri da Istanbul a Minsk. Pochi giorni prima della pubblicazione di questa notizia, un altro giornale tedesco, Bild aveva parlato dell’intervento del Presidente bielorusso Lukašėnka e del ruolo della THY nella tratta degli esseri umani tra questi due Paesi. Notizia, tuttavia, smentita dalla compagnia aerea turca. Da questo documento riservato emergono delle misure punitive contro le compagnie aeree, tra cui, Turkish Airlines. Il governo di Ankara ha annunciato lo scorso 12 novembre, che i voli per Minsk dalla Turchia sarebbero stati immediatamente vietati per le persone provenienti da Siria, Iraq e Yemen: troppo difficile distinguere i passeggeri in viaggio per la Bielorussia dai migranti. Dopo la diffusione di questo documento, Ibrahim Kalin, portavoce del Presidente della Repubblica di Turchia, in un’intervista rilasciata il 13 novembre all’agenzia di stampa AFP, ha smentito le accuse sostenendo che «la Turchia è estranea a questa crisi legata ai rifugiati». In realtà, secondo la BBC Reality Check, la maggior parte dei migranti che negli ultimi mesi ha provato a superare il confine bielorusso con l’intento di entrare in Europa viene dall’Afghanistan e dal Medio Oriente. E, secondo i dati comunicati da Frontex, la Turchia è il Paese da cui transita la maggior parte dei migranti attualmente presenti in Bielorussia. Minsk permette ai cittadini di 76 Paesi di circolare liberamente sul suo territorio fino a 30 giorni. Eppure tra questi non ci sono l’Iraq e l’Afghanistan. Molto probabilmente le persone provenienti da questi Paesi sono dunque entrate in Bielorussia partendo da qualche aeroporto turco.
Minacce da Minsk e Ankara
Quando la crisi umanitaria ha iniziato a trovare uno spazio mediatico a livello internazionale l’Unione Europea ha cambiato tono. Il Presidente bielorusso Lukašėnka è stato definito il responsabile numero uno di questa situazione contro il quale bisogna applicare una serie di sanzioni. La risposta del regime di Minsk è stata immediata e chiara: «Noi riscaldiamo tutta l’Europa con il nostro gas e loro ci minacciano con le sanzioni. E se noi chiudessimo le valvole e smettessimo di pompare il gas? Ecco, consiglio vivamente a tutti i leader senza cervello di pensare prima di parlare». Nella dichiarazione rilasciata il 12 novembre, il tono di Minsk è stato aggressivo e minaccioso. Pochi giorni prima di questa uscita, ad Atene, il Primo Ministro greco Mitsotakis, rispondendo alla domanda di una giornalista, durante una conferenza stampa aveva parlato così: «Il responsabile della crisi legata all’immigrazione è la Turchia». Tuttavia all’interno dello stesso intervento anche Mitsotakis non si esimeva dal definire la Turchia come un “Paese terzo sicuro” verso il quale i migranti potrebbero essere respinti. Negli stessi giorni, l’11 novembre, durante la conferenza stampa organizzata dal Presidente della Repubblica di Turchia e dal Primo Ministro ungherese, Ankara ha espresso la sua posizione in merito all’uscita di Mitsotakis con le seguenti parole: «In Turchia ci sono circa 5 milioni di rifugiati. Li ospitiamo a casa nostra. Se volessimo aprire le porte non so cosa potrebbe fare la Grecia. Nelle acque dell’Egeo e del Mediterraneo è la Grecia che buca i gommoni dei rifugiati e li lascia alla morte. Abbiamo tutte le documentazioni e prove nelle nostre mani che dimostrano come la Grecia spinge verso la morte migliaia di persone». Anche Orban, nella stessa occasione, ha sottolineato che l’Unione Europea dovrebbe dare il necessario sostegno economico alla Turchia nello svolgimento del suo ruolo di difesa dei confini europei dalle ondate d’immigrazione definite da lui come una “minaccia”.
Un’Europa incoerente che si fa minacciare
In questo breve tempo, a seguito delle dichiarazioni di due leader europei quali Mitsotakis e Orban, dalle posizioni diverse in merito al futuro dell’Unione Europea, è possibile osservare perfettamente quanto, per l’Unione, la Turchia sia, malgrado tutto, essenziale. Ankara deve essere sostenuta, assecondata e magari anche criticata ma solo fino a un certo punto. Esattamente come hanno sempre fatto i tanti e diversi leader europei in questi ultimi venti anni, anche quando si trattava di questioni slegate dall’immigrazione. Malgrado le critiche sui diritti umani rivolte direttamente e indirettamente a Erdogan, l’Europa ha continuato a siglare nuovi accordi in campo militare, commerciale e in quello dell’immigrazione.
Oggi, con la crisi scoppiata al confine polacco-bielorusso, il rischio di trovarsi con un nuovo regime collaboratore, appena fuori dalle porte dell’Europa, esiste. Secondo il primo ministro polacco, Morawiecki, la mente che comanda Minsk e organizza questa crisi è Putin. Eppure per Mosca una soluzione c’è. Le parole pronunciate dal ministro degli Affari esteri del Governo russo, Sergej Viktorovič Lavrov, durante la conferenza stampa che ha tenuto con il Segretario per i rapporti con gli Stati del Vaticano, Paul Richard Gallagher, spiegano perfettamente la posizione di Mosca: «La situazione è il frutto delle avventure militari dell’Occidente. Perché l’Unione Europea non aiuta economicamente la Bielorussia come ha fatto con la Turchia per la gestione dei rifugiati?». Si tratta di un’idea folle, mai fatta e senza precedenti? Lavrov, pur essendo un esponente importante del regime russo, dice veramente una sciocchezza? Lavrov molto probabilmente si sta riferendo a come si sono comportate, sin dall’inizio, l’Unione Europea e la maggior parte dei Paesi della NATO in Siria. Lavrov vorrebbe sottolineare che le politiche adottate in Siria da queste forze internazionali, hanno in sostanza scatenato diverse ondate d’immigrazione verso l’Europa. Riconoscendo anche le responsabilità di Mosca per questa instabilità, si potrebbe dare ragione a Lavrov. Alla lista si dovrebbe aggiungere anche il continuo e crescente commercio di armi che dall’Occidente, passando per la Turchia, arriva in Medio Oriente.
In quest’ottica, il ruolo e la responsabilità dell’Occidente nell’origine dei flussi migratori verso l’Europa diventano più chiari ed evidenti. E, sempre in quest’ottica, assume un senso ancora più forte e pericoloso l’accordo firmato con Ankara. Ora forse è il momento di chiedersi se si vuole ripetere lo stesso errore o meno, con Minsk. Costruire una cultura economica basata sulla produzione di armi che necessita di conflitti, guerre e instabilità, oppure lavorare per costruire una cultura economica basata sulla pace? E quindi collaborare con i regimi alle porte dell’Unione Europea pur di tenere bianco e pulito il giardino di casa?
Forse è giunto il momento di abbandonare la posizione secondo la quale «Erdogan è un dittatore di cui si ha bisogno». Perché è un attimo cambiare quel nome con Lukašėnka.