La fine dell’occupazione afgana e la questione dei diritti

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La tragedia afgana svela brutalmente il “volto cattivo” insito nel discorso dei diritti, la loro strumentalizzazione e ipocrisia. I diritti appartengono all’orizzonte dell’emancipazione, della lotta per la dignità, la libertà e l’eguaglianza (sia che la loro nascita esprima ab origine la tensione al “bene” sia che rappresenti una reazione alla consapevolezza del “male”), ma la loro storia si accompagna a contraddizioni, ambiguità e abusi. Sin da quando Vitoria teorizzava il dominium che compete a ciascuna creatura razionale, ma al contempo distingueva gli spagnoli, creature pienamente razionali, dagli indios, menores e, dunque, assoggettati ai primi, i diritti hanno mostrato di essere, oltre che cura, veleno, asserviti alle esigenze di dominio.

La “guerra umanitaria” iniziata nel 2001, per volontà degli Stati Uniti e sotto l’egida della Nato, nel nome della lotta al terrorismo e dell’esportazione della democrazia, è una evidente strumentalizzazione, che occulta interessi geopolitici ed economici (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/09/11/l11-settembre-dalle-torri-gemelle-allafghanistan/). Come l’abbandono dell’Afghanistan mostra con una chiarezza esemplare, i diritti e la democrazia sono un vessillo, abbandonato sul terreno non appena, in linea con l’utilitarismo neoliberista, il rapporto costi e benefici non sia più favorevole; ça va sans dire che il mercato delle armi troverà altri scenari dove testare e vendere i propri prodotti e il confronto commerciale e geopolitico altri fronti.

Non vi è tuttavia solo falsità: la pretesa in sé di esportare la democrazia e di farlo – un vero e proprio ossimoro – con le armi, veicola una logica coloniale e di dominio, che è strutturalmente contraria alla democrazia. La democrazia – tralasciando qui il discorso, non indifferente invero, della sua profonda crisi nei Paesi che pretendono di esportarla – è solo una tra le forme possibili di organizzazione sociale coerente con la dignità umana, l’eguaglianza, la partecipazione; per limitarsi a due esempi concreti, se pur circoscritti, si pensi al mandar obedeciendo zapatista e al confederalismo democratico del Rojava.

Guerra, violenza e dominio sono intrinsecamente contrari rispetto al discorso dei diritti, che si coniuga con la pace e con una lotta per i diritti che muove nella prospettiva dell’emancipazione personale e sociale. I diritti che viaggiano al seguito delle armate, o delle condizionalità economiche, i diritti imposti, contraddicono se stessi. I diritti – o quello che Panikkar chiama l’«equivalente omeomorfo dei diritti» – nascono nei conflitti e sono radicati nella storia: ciò non significa cadere in un relativismo nichilista, o liquidare i diritti come “di parte”, ma essere consapevoli che essi non sono appannaggio dell’Occidente. Come è scritto nella Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (Banjul, 1981): sono «le virtù della […] tradizione storica e i valori della civiltà africana» che ispirano e caratterizzano i diritti dell’uomo e dei popoli.

Legare i diritti alle storie, al plurale, al loro essere l’esito di conflitti materiali, contestualizzati in un dato habitat sociale, economico, politico e culturale, rafforza la loro concretezza e allontana i rischi insiti in un approccio eterodiretto, il loro rifiuto in quanto occidentali ed espressione di imperialismo, la loro presentazione in chiave di supremazia coloniale. L’universalità dei diritti in altri termini non è una chimera ma si manifesta in via induttiva e vive in quanto saldamente ancorata alla materialità della storia.

Restando alle distorsioni dei diritti, si può quindi aggiungere che essi rischiano di perdere ogni credibilità anche quando degradano in mera retorica, con il collasso della loro pretesa universalità. I discorsi indecenti sul (non) riconoscimento del diritto di asilo – il diritto di chi non ha diritti –, sulla sua esternalizzazione o, al più, la sua riduzione a corridoio umanitario per pochi, rendono evidenti la brutale violazione e contraddizione dei diritti come universali. La chiusura dell’Europa, la fortezza “Europa”, sempre più cinta da muri fisici, oltre che giuridici, così come l’operazione di disumanizzazione di migranti e profughi, mostrano tutta l’ipocrisia e il “volto cattivo” dei diritti.

I diritti – si è detto – sono radicati nei conflitti e allora occorre mobilitarsi per impedire guerre come quelle condotte in Afghanistan, ma anche in Iraq, in Kosovo, in Libia, pretendendo il rispetto dell’art. 11 della Costituzione, appoggiare chi lotta per i propri diritti ed esigere, qui e ora, l’effettiva concretizzazione del diritto di asilo (art. 10 Costituzione), che è riconosciuto, «nel territorio della Repubblica», a tutti gli stranieri ai quali sia impedito nel loro paese «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche».

Gli autori

Alessandra Algostino

Alessandra Algostino è docente di Diritto costituzionale presso l’Università di Torino. Fra i suoi temi di ricerca: diritti, migranti, lavoro, democrazia, partecipazione e movimenti, rapporto fra diritto ed economia, pace. Fra i suoi libri e saggi: "L’ambigua universalità dei diritti. Diritti occidentali o diritti della persona umana?", Napoli, 2005; Democrazia, rappresentanza, partecipazione. Il caso del movimento No Tav, Napoli, 2011; "Diritto proteiforme e conflitto sul diritto", Torino, 2018; "La partecipazione dal basso: movimenti sociali e conflitto", in Quaderni di Teoria Sociale, n. 1/2021; "Genere ed emancipazione fra intersezionalità e dominio: una riflessione nella prospettiva del costituzionalismo", in Uguaglianza o differenza di genere? Prospettive a confronto, Napoli, 2022; "Pacifismo e movimenti fra militarizzazione della democrazia e Costituzione", in Il costituzionalismo democratico moderno può sopravvivere alla guerra?, Napoli, 2022.

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