Cessate il fuoco in Palestina. E ora?

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Con il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, adottato a partire dalle 2.00 del mattino dell’ora locale del 21 maggio, i mezzi di comunicazione internazionali possono nuovamente disinteressarsi della costante violenza nella quale vivono i palestinesi, ovunque risiedano (una violenza sistematica che nel contesto della Striscia si declina in un embargo che dura da quasi 15 anni, nei quali si sono susseguite offensive israeliane che hanno distrutto le infrastrutture del territorio e profondamente danneggiato ogni aspetto della vita palestinese).

Tuttavia i palestinesi, a Gaza come a Gerusalemme e in tutti i territori della Palestina storica, hanno celebrato una festa: quella della fine del mese di Ramadan – strappata loro dai violenti attacchi israeliani su tutti i loro spazi di vita – e la festa della loro unità, che hanno rivendicato fortemente e all’unisono nel corso delle ultime settimane. Mentre i mezzi di informazione mainstream italiani e internazionali hanno continuato, infatti, a rappresentare gli eventi di queste settimane nella Striscia di Gaza, nella città di Gerusalemme, nel quartiere di Sheikh Jarrah e all’interno delle città di Lod, Haifa, Giaffa e altre utilizzando una terminologia inadeguata alla comprensione dei fatti, i palestinesi hanno reclamato la loro narrazione, voce e azione politica.

Gli appelli di accademici e attivisti al servizio pubblico della Rai (http://www.sesamoitalia.it/lettera-sesamo-ai-media%20italiani/) e le manifestazioni che si sono moltiplicate in più di 50 città italiane, organizzate dalle nuove generazioni palestinesi e da gruppi e associazioni solidali (come è avvenuto in moltissimi altri Paesi), mirano a mettere in discussione l’inadeguatezza della terminologia e della narrativa mainstream, che sfumano e sfuocano il contesto della questione palestinese, dichiarandosi «neutrali» ma contribuendo, invece, ad offuscare i rapporti di potere politici, economici e internazionali all’interno dei quali si svolgono gli eventi del presente. Eventi che continuano anche al di fuori dei momenti dell’attenzione mediatica internazionale (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/05/05/il-mio-rapporto-con-israele/).

La resistenza degli abitanti palestinesi all’espulsione forzata dalle loro case a Sheikh Jarrah è una vicenda che rappresenta un’esperienza diffusa, alla quale è importante prestare attenzione per riuscire a cogliere la sistematicità della violenza alla quale quotidianamente i palestinesi resistono da oltre 73 anni. Lo stesso vale per la distruzione e la sofferenza inflitte ai palestinesi della Striscia di Gaza.

Il quartiere di Sheikh Jarrah, a due chilometri dalla Città Vecchia, si trova in una zona centrale che collega Gerusalemme Est alla parte occidentale della città. Da anni, come in altre zone limitrofe, le politiche israeliane tentano di spingere fuori gli abitanti palestinesi, demolendo case, negando permessi di costruzione e investendo in centinaia di unità abitative illegali per coloni ogni anno. All’interno di questo scenario, la violenza israeliana sui fedeli in preghiera all’interno della moschea di Al-Aqsa nelle ultime notti del mese di Ramadan – un periodo sacro per i palestinesi musulmani – sono solo l’ultimo episodio di un processo continuo di violenze all’interno del terzo luogo sacro dell’Islam da parte dell’esercito israeliano (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/05/14/senza-giustizia-non-ce-pace-in-terrasanta/). Queste violenze non si sono interrotte nemmeno dopo il cessate il fuoco del 21 maggio.

La tragica situazione della Striscia di Gaza e il suo nesso con le violenze a Gerusalemme e in Cisgiordania, e sulla comunità palestinese all’interno dei territori sui quali è stato fondato lo Stato israeliano nel ‘48, non possono essere inquadrate chiaramente se si continua a utilizzare la narrativa del “conflitto” simmetrico. La categoria del “confitto” è problematica nella misura in cui viene utilizzata in un’accezione che ne depoliticizza il significato, per obliterare i rapporti di potere che permettono l’oppressione del popolo palestinese in tutte le sue componenti da parte dello Stato israeliano – in un contesto di insediamenti coloniali che continuano e si espandono da 73 anni.

L’espulsione forzata dei palestinesi dalle loro terre e case tra il ‘47 e il ‘48, indicata con il termine arabo Nakba (catastrofe) è da loro intesa, oggi, come un processo mai concluso e non come una data del passato: una “struttura” (come da definizione dello studioso Patrick Wolfe) che continua da decenni e lega le dinamiche del presente a un nodo fondamentale – quello dell’espulsione dei palestinesi dalla terra verso i campi profughi nei Paesi limitrofi – che la comunità internazionale ha continuamente tentato di rimuovere e di non affrontare nel corso dei decenni.

Da diversi anni i palestinesi condividono una frase dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu per parlare della propria causa: «Se siete neutrali in situazioni di ingiustizia, avete scelto la parte dell’oppressore». Ed è proprio attorno alla questione della giustizia che ruotano le rivendicazioni palestinesi. Comunicando oltre i confini della frammentazione geografica, amministrativa e politica imposta dall’occupazione israeliana, dalla costante colonizzazione e dal sistema politico ideato con gli Accordi di Oslo nel ‘93, i palestinesi si sono uniti nelle ultime settimane nel rivendicare e raccontare la propria storia e il proprio presente, per reclamare quella che, in un manifesto fatto circolare ampiamente nello sciopero generale (denominato lo “Sciopero della Dignità”) indetto il 18 maggio 2021, spiegano essere una “storia semplice”: quella del loro desiderio di unità e unione in tutta la Palestina.

La mobilitazione palestinese di queste settimane non vuole contrapporsi solo agli abusi e alle violenze israeliane delle ultime settimane ma vuole gettare luce su un intero sistema di discriminazione e violenza, e su un processo storico che dura da un intero secolo e che trova le sue radici nel periodo del mandato britannico in Palestina. Nel farlo, si sta organizzando dal basso, ponendosi in termini critici anche rispetto alla leadership istituzionale palestinese. L’aspirazione all’unità è basata, infatti, sulla profonda e ampia critica della società palestinese nei confronti di un’intera classe politica che è stata incapace, nel corso degli ultimi decenni, di portare avanti e realizzare le rivendicazioni del popolo.

I palestinesi quindi, al momento, si impegnano a continuare a mobilitarsi al di là della fine dell’offensiva israeliana su Gaza. La perdita di vite e infrastrutture, il dolore, l’oppressione e la violenza israeliana sono realtà con cui i palestinesi continuano a confrontarsi anche al di fuori dei momenti di attenzione dei media, e al di fuori delle narrazioni che escludono le loro voci ed esperienze. Fanno parte, invece, della vita quotidiana palestinese in tutte le sue diverse dislocazioni geografiche. I palestinesi hanno dichiarato un’intifada, e non pretendono niente di meno che la libertà, la giustizia e il diritto di vivere.

Gli autori

Tamara Taher

Tamara Taher è dottoranda in "Mutamento sociale e politico" all'Università degli studi di Firenze e all'Uni-versità degli studi di Torino. Si occupa di teoria politica, intellettuali, cultura materiale e decolonizzazione. Fa parte del comitato editoriale di "Maydan. Rivista sui mondi arabi, semitici e islamici".

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