Il genocidio armeno e il neo-imperialismo turco

image_pdfimage_print

Contrariamente alla narrazione veicolata dai massmedia, la politica estera degli Stati Uniti non ha nulla a che vedere con chi ricopre la carica di presidente, con il suo essere democratico o repubblicano, o con una presunta “attenzione ai diritti umani”… La politica USA nel Medio e Vicino Oriente è determinata da dinamiche storiche e materiali ben più potenti di ogni retorica e ideologia. L’agenda USA non può non essere quella che sempre è stata e sempre sarà, e consiste nell’impedire l’emergere di un’unica potenza egemonica nell’area. Una sorta di equilibrio del caos, garantito fomentando conflitti etnici e guerre fratricide. È in questo quadro che la Turchia, seppur membro della NATO e alleato fondamentale in funzione anti russa e anti iraniana, lo è fino a un certo punto. E questo punto è precisamente quello che l’attuale presidente turco Erdogan sta continuamente oltrepassando cercando di autonomizzarsi, di usare la NATO (oltre che esserne usato) e di affermarsi quale potenza neo-imperiale dal Mediterraneo all’Asia centrale. Ecco quindi che il genocidio armeno, il suo riconoscimento da parte degli Stati Uniti, assume il senso di un ammonimento, di un richiamo a ridimensionare le mire espansionistiche turche. Ciò avviene a maggior ragione per il fatto che il massacro degli armeni è una questione cruciale proprio di quella storia imperiale di cui Erdogan si fregia di essere erede e continuatore.

Con la fine della guerra russo-turca del 1877-78, l’Impero zarista vittorioso si impose come garante delle minoranze non musulmane presenti nel territorio ottomano, in particolare degli armeni. Fu allora che l’Impero ottomano in declino incominciò a percepire gli armeni, e le altre minoranze, come una minaccia. Venne così fomentato un odio religioso tra musulmani e cristiani (soprattutto armeni ma anche greci e assiri) che portò in breve a quelli che passarono alla storia come “massacri hamidiani” (dal nome del Sultano Hamid). È importante citare i massacri hamidiani non solo perché si trattò di una vera e propria prova del genocidio che avverrà nel corso della prima guerra mondiale, ma anche perché Erdogan si presenta dichiaratamente quale successore spirituale del Sultano Hamid, nelle sue mire espansionistiche “neo-ottomane”.
Durante la prima guerra mondiale, l’Impero ottomano e l’Impero russo si fronteggiano sul confine caucasico, lo stesso che ancora oggi separa l’Armenia dalla Turchia. Nei primi anni di guerra i russi riescono a guadagnare terreno nella Turchia orientale, fino a oltre il lago di Van, riconquistando quello che storicamente era il territorio della Armenia occidentale. È in quei frangenti che l’Impero ottomano, perdendo terreno a favore dei russi e degli armeni, inizia a trattare la minoranza armena come un serio pericolo, una sorta di quinta colonna del nemico in patria. Fu così che venne pianificato il massacro indiscriminato di tutta la popolazione armena, uomini, donne, bambini: tra il 1915 e il 1918 l’Impero ottomano si rende responsabile del genocidio di 1,5 o 2 milioni di armeni, a seconda delle stime. Questo genocidio, che ha dinamiche per certi versi simili a quelle della Shoa contro il popolo ebraico – che gli armeni chiamano “Medz Yeghern”, “il Grande Male” – è la più grande ferita che si porta dentro di sé ogni singolo armeno. Una ferita mai rimarginata anche a causa del fatto che ancora oggi la Turchia si rifiuta di riconoscere la propria responsabilità, una negazione che ha ragioni profonde.
La Turchia moderna è infatti nata sulla base di un fortissimo sentimento nazionalista, portato avanti da Kemal Ataturk, sentimento la cui prima espressione fu proprio la guerra a est contro l’Armenia. Detto altrimenti, il sentimento antiarmeno dei turchi è parte integrante della retorica nazionalista che ha reso possibile la nascita della Turchia moderna (l’odio anticurdo ha dinamiche molto simili): ammettere, pure a distanza di cento anni, le proprie colpe nei confronti degli armeni equivarrebbe a negare gli stessi princìpi fondatori dello Stato turco sulle ceneri dell’Impero ottomano, qualcosa di impensabile fino a quando la Turchia sarà quella che conosciamo. Per la stessa ragione è inevitabile che il popolo armeno viva ogni intervento turco sui propri territori rivivendo lo spettro di tali politiche genocidiarie.

E la minaccia di genocidio e pulizia etnica è tutt’altro che un’ipotesi remota, come ha mostrato la recente aggressione militare di Azerbaijan e Turchia contro l’enclave armena dell’Artzakh (Nagorno Karabakh), nel silenzio complice della comunità internazionale. Non si può comprendere nulla di tale conflitto se non si tiene conto del ruolo della Repubblica turca e della sua politica di espansione neo-imperiale. Il governo turco mira nel lungo periodo a strappare all’Armenia il controllo del suo territorio meridionale, per creare una continuità tra Turchia e Azerbaijan, parte mancante di un nuovo moderno grande Turkestan esteso dal Mediterraneo allo Xinjang cinese.
L’ideologia di un grande impero che riunisca i popoli turcofoni non è l’unica che sorregge il disegno neo-imperiale di Ankara. Nel solco dell’ideologia dei Fratelli musulmani, Erdogan si è presentato negli ultimi anni come il difensore dei musulmani, da un lato, e come l’erede di un impero multinazionale neo-ottomano, dall’altro. Si tratta di un nazionalismo, di cui la società turca è profondamente impregnata, che ha radici antiche e complesse, molto diverso dal nazionalismo di origine occidentale: una ideologia universale e visionaria, quasi millenarista, che fornisce alla Turchia la missione storica non tanto di difesa della patria ancestrale quanto quella di difensore e liberatore dei popoli turchi e musulmani in ogni parte del mondo. È questo il retroterra ideologico su cui poggiano gli interventi militari turchi nel nord della Siria e dell’Iraq, così come in Libia a sostegno delle milizie tripolitane di Al Serraj. Qui, la presenza turca è ormai un dato di fatto, e gli accordi turco-libici che ne sono seguiti hanno di fatto sancito l’allargamento dei confini marittimi turchi (la “Patria blu”), estendendo l’area di influenza di Ankara nel Mediterraneo orientale, altro teatro di uno scontro per le risorse energetiche (petrolio e gas) in cui la Turchia ha già più volte messo all’angolo e umiliato i propri concorrenti greci, ciprioti, francesi, italiani.
E oltre all’impegno direttamente militare, dai Balcani fino all’Asia centrale, dal Corno d’Africa fino alle sponde mediterranee, la presenza turca si può percepire anche nei termini di una vera e propria penetrazione strategica di lungo periodo, economica, culturale, diplomatica (in Italia, la compagnia turca Yildirim si è di recente assicurata il controllo del porto di Taranto). Centri culturali, scuole, moschee, investimenti nell’edilizia, nelle infrastrutture, nella sicurezza, nei trasporti… Un vero e proprio soft power che va a riempire il vuoto lasciato dalla perdita di attrattiva e di autorevolezza dell’Occidente e dell’american way of life, a cui viene contrapposta un’identità islamica moderna, al tempo stesso forte e “moderata” (libero mercato + fratelli musulmani).

Ciò che salta agli occhi in questo scenario è infatti proprio l’irrilevanza delle potenze occidentali, Stati Uniti ed Europa in particolare. La regione del Caucaso è infatti parte del “grande gioco” delle risorse, dei gasdotti e oleodotti che partono dai giganteschi giacimenti del Mar Caspio di fronte all’Azerbaijan per arrivare in Turchia e poi in Europa passando per le coste pugliesi (scavalcando l’Armenia). Un equilibrio che le multinazionali e i governi occidentali non hanno nessuna intenzione di mettere in discussione, tantomeno per sostenere le sorti di un popolo di poveri armeni montanari. Con buona pace di ogni retorica umanitaria e di genocidi riconosciuti fuori tempo massimo.

Gli autori

Daniele Pepino

Abita in Alta Valle di Susa, si occupa delle edizioni Tabor (www.edizionitabor.it). È autore di: “ESCARTOUN” - La Federazione delle libertà - Itinerari di autonomia, eresia e resistenza nelle Alpi occidentali (con Walter Ferrari) 2013; Nell’occhio del ciclone. La resistenza curda tra guerra e rivoluzione, 2014.

Guarda gli altri post di: