Il 15 dicembre la Commissione di inchiesta sul Coronavirus, istituita a giugno dal Governo svedese, ha pubblicato il suo primo rapporto parziale, che ha avuto vasta risonanza. La Commissione non si è pronunciata (lo farà in un successivo, e conclusivo, rapporto) sulla strategia complessiva delle autorità svedesi, bensì su un aspetto specifico: l’assistenza agli anziani, nelle case di riposo come a domicilio. Dopo aver ricordato come, tra questi soggetti, si riscontri un’alta mortalità in molti paesi – conseguenza della massiccia diffusione del contagio – la Commissione conclude che, nonostante le autorità svedesi fossero informate della strage di anziani nelle RSA italiane, il sistema socio-sanitario nazionale è arrivato impreparato e mal equipaggiato alla prova, a causa di «ben note carenze»; il personale si è ritrovato spesso da solo a fronteggiare l’emergenza e i provvedimenti adottati dalle autorità per arginare il contagio sono stati «tardivi e per molti versi anche inadeguati» (https://volerelaluna.it/mondo/2020/03/29/il-modello-svedese-alla-prova-del-coronavirus/).
È noto come la decisione sulle misure più idonee a fronteggiare l’emergenza sia stata affidata all’Agenzia per la salute pubblica (FHM), un organismo indipendente dal potere decisionale, con una legittimazione di natura epistocratica (il “governo degli esperti”). Pur in linea con l’ordinamento costituzionale del paese, tale scelta ha suscitato dall’inizio reazioni contrastanti nella società civile: chi ha difeso la primazia degli esperti, chi ha accusato il Governo di aver abdicato – di fronte a una crisi senza precedenti – al suo ruolo e chi infine ha argomentato che assegnare la gestione della pandemia a un organismo tecnico-scientifico costituisce pur sempre una decisione politica.
Più che disquisire su principi astratti, interessa qui esaminare la condotta e la strategia comunicativa dell’Agenzia. Ecco allora un florilegio di presupposti e previsioni su cui essa ha basato le sue scelte, tra primavera e autunno: gli asintomatici non sono contagiosi (sic!), dunque non occorre eseguire tamponi a tappeto; i positivi sono contagiosi per pochi giorni; la mascherina è un boomerang, perché disincentiva dal rispettare le misure di distanziamento e di igiene; Stoccolma raggiungerà l’immunità di gregge entro metà maggio; tra autunno e inverno la Svezia si ritroverà, nella peggiore delle ipotesi, con focolai locali o con una diffusione su scala nazionale ma di gravità contenuta.
L’Agenzia ha quindi adottato una strategia di diffusione “controllata” del virus (con restrizioni non draconiane, sostenibili nel lungo periodo) nonostante le «ben note» (anche all’Agenzia, è lecito supporre) carenze nell’assistenza agli anziani (scarsa igiene, insufficienti dispositivi di protezione, personale spesso poco qualificato e precario) impedissero a priori di contenere il contagio proprio nella fascia di popolazione la cui salvaguardia l’Agenzia stessa definiva essenziale. Mentre “i nonni” morivano a migliaia, veniva ripetuto ossessivamente il mantra: «la curva si sta stabilizzando/sta per stabilizzarsi», anche quando, tra aprile e giugno e poi, di nuovo, da novembre, era lampante che i nuovi casi e i decessi stavano aumentando in modo allarmante.
Al momento la Svezia ha un tasso di mortalità (numero di decessi per milione di abitanti) decisamente più basso di paesi che hanno scelto la linea del rigore (al 21 dicembre, è di 789 contro i 1.138 dell’Italia). Ciò che però ha assillato dall’inizio gli svedesi è che i loro dati su positivi e decessi sono incomparabilmente più alti di quelli degli altri paesi nordici. Come spiegarlo? Anche su questo punto, gli epidemiologi dell’Agenzia hanno sfoderato una certa creatività. Se in primavera avanzavano una spiegazione per lo meno attendibile, anche se non sufficiente (tra fine febbraio e inizio marzo circa un milione di svedesi era andato in vacanza all’estero, importando il virus dalle Alpi italiane e austriache), a settembre, quando la situazione nel paese era tranquilla, azzardavano che il virus sarebbe stato più letale in Svezia perché l’influenza dell’inverno precedente era stata più blanda, rispetto ai paesi vicini. In breve: meno soggetti fragili falcidiati dall’influenza stagionale, più candidati a morire di Covid. I colleghi danesi, norvegesi e finlandesi accoglievano con una certa freddezza la teoria. Infine, più recentemente, l’Agenzia è ritornata alla tesi della settimana di vacanza invernale come micidiale focolaio, ma con una variante: rispetto ai paesi confinanti, la Svezia ha più immigrati, che viaggiano molto e hanno importato il Covid da diverse località; del resto, tutti possiamo facilmente immaginare le orde di camerieri, badanti, tassisti che prendono d’assalto i gli aeroporti…
Se fosse stato un politico a compiere errori simili, si sarebbe dovuto dimettere (forse perfino in Italia). Invece i vertici dell’Agenzia rimangono saldamente al loro posto e ora che i buoi sono scappati, e la seconda ondata dilaga, il Governo di Stefan Löfven cerca di chiudere la stalla. Benché il Rapporto parziale della Commissione chiami in causa anche gli esecutivi precedenti (dal 2006 al 2014 ha governato il centrodestra, privatizzando a tutto spiano) nonché le amministrazioni regionali e comunali, ovviamente è il Governo centrale in carica a essere sotto accusa. Ecco allora che, dopo aver introdotto di sua iniziativa già a novembre due restrizioni (il divieto di servire alcolici dopo le 22 e il tetto massimo di otto persone per gli assembramenti pubblici), dopo l’uscita del Rapporto il primo ministro si è sforzato di recuperare quella centralità cui aveva rinunciato per mesi, annunciando, il 18 dicembre, nuove misure, tra cui l’obbligo per negozi e centri commerciali di stabilire un tetto massimo di visitatori. Il mancato rispetto della norma potrebbe portare alla chiusura delle attività (ma, si noti, subito è stato obiettato che una simile misura sarebbe priva di fondamento giuridico). Il Governo ha altresì confermato la didattica a distanza per le superiori fino al 24 gennaio e stabilito che i comuni devono chiudere al pubblico tutte le attività non necessarie. Quanto all’Agenzia, dopo pressioni da varie parti (inclusa la famiglia reale) ha finalmente “raccomandato” l’uso della mascherina sui mezzi pubblici (ma solo negli orari di punta).
Il “modello svedese” è invecchiato male: a furia di privatizzare servizi essenziali come la sanità e la scuola e di piegare l’amministrazione pubblica alla logica aziendalistica del New Public Management, la Svezia si ritrova con un Welfare che, in alcuni settori, si è sgretolato. E la soluzione non sta nel cercare di resuscitare l’età d’oro della socialdemocrazia svedese (anni ’60-’70), perché quel modello di Welfare, e di mercato del lavoro, era modellato su una società che si presumeva omogenea culturalmente (ed etnicamente) e ruotava intorno al posto di lavoro a tempo indeterminato.
La comparazione tra Svezia e altri paesi europei dovrebbe però offrirci anche delle lezioni globali. Non ha funzionato, nel Nord come nel Sud dell’Europa, né la governance transnazionale né il coordinamento tra autorità nazionali e amministrazioni locali. Il ruolo degli esperti va radicalmente ripensato, sia dove essi sono stati chiamati a decidere in prima persona, senza doverne rispondere (Svezia), sia dove i politici hanno ascoltato o ignorato i loro consigli a seconda della necessità del momento (Italia, Spagna ecc.). Con una classe politica screditata a livello globale già prima della pandemia, la delegittimazione anche degli esperti consegnerebbe alle destre il mondo post-Covid. Quanto alla società civile, il suo coinvolgimento non può essere ridotto alla colpevolizzazione in nome di quella “responsabilità individuale” che è uno dei cardini del neoliberalismo: nessuna prevenzione, gestione ex-post del disastro all’insegna del «si salvi chi può» – con tanti elogi alla “resilienza” (altro concetto da estirpare, insieme a governance), in attesa della prossima calamità su cui speculare.